giovedì 22 marzo 2012

Carlotta d'Aragona e Cesare Borgia

Chissà come sarebbe stata la vita di Cesare Borgia se gli fosse riuscito di impalmare Carlotta d'Aragona e non l'altra Carlotta quella d'Albret che vide così poco dopo la nascita dell'unica  figlia peraltro mai conosciuta.... 
Ma Carlotta d' Aragona sotto la protezione di Luigi XII Re di Francia ebbe il coraggio o l'impudenza di rifiutare la corte del futuro Valentino presentatosi alla corte di Francia con vesti di un lusso sfarzoso. Cesare Borgia d'altro canto aveva pur nella sua giovane età un passato già discutibile. Nominato cardinale dal padre Papa Alessandro VI si era ben presto liberato degli onori ecclesiali per rincorrre il sogno impossibile di avere un regno tutto per sè. Sposare Carlotta d'Aragona voleva dire aver garantito il possesso del Regno di Napoli essendo Carlotta figlia di Federico II Re di Sicilia e Napoli. Ma a Carlotta di vivere con uno "scardinalato" non ci pensava affatto, così chiese l'impossibile ossia la rinuncia francese ai diritti su Napoli e l'impossibile le venne giustamente negato...
Ma a Cesare poco importava chi gli sarebbe stato accanto in qualità di legittima sposa, l'unica vera passione era la conquista del potere che in quegli anni turbolenti voleva dire avere una terra e uno stato il più vasto possibile. Il tempo non giocava a suo favore visto che l'unica speranza di ottenere un regno era riposta nell'ormai settantenne padre Rodrigo, ossia Papa Alessandro VI. Cesare era sicuramente consapevole  che con la morte del genitore, come  in effetti avvenne pochissimi anni più tardi nel 1503, sarebbe iniziato il lento declino delle sue fortune e la fine del sogno. Per questo motivo nel brevissimo spazio di un pugno d'anni Cesare scatenò le sue soldataglie in lungo e in largo per la penisola riuscendo in poco meno di un decennio (1498-1507) a essere signore della Romagna  e a progettare la conquista di parte della Toscana. Il suo pensiero dominante era la guerra e il piacere della conquista e per soddisfare queste pulsioni non arretrava di fronte ad una preordinata eliminazione fisica di suoi avversari. L'uso dei sicari fu una sua peculiare prerogativa. Rimaneva molto poco tempo al Valentino per altri piaceri. Due figli, illegittimi, pare li ebbe con una delle dame di compagnia al seguito della sorella Lucrezia, certa Drusilla, il che presuppone una certa continuità di consuetudine. Di certo la buona Carlotta d'Albret ebbe molto poco agio di giacere col legittimo sposo, peraltro rifiutato con sdegno dalla sua omonima. Quando  Cesare muore ha 31 anni e in un arco temporale brevissimo è riuscito ad incarnare alla perfezione la figura ispiratrice del Principe di Macchiavelli. A Carlotta d' Aragona Cesare ripugnava fisicamente e, forse guidata da un fine istinto e da una personalità fuori del comune, seppe tenersi lontano dalle furiose vicende esistenziali del grande condottiero. La sorte le assegnò un matrimonio dignitoso con Guy de Laval che Anna di Bretagna futura moglie del Re di Francia aveva protetto e aiutato fin dalla giovinezza. Come già per la madre, morta nel darle la luce anche il destino di Carlotta d'Aragona doveva concludersi con la nascita della primogenita. Morì di parto all'età di 26 anni. Della sua prole solo una delle sue figlie, Anna nata nel 1505 sopravvisse fino all'età adulta ed ebbe a sua volta figli. Carlotta d'Albret non fu più fortunata: morì nel 1514 a soli 34 anni....

martedì 6 marzo 2012

Gli autoscontri a Ferragosto in valle

Gli autoscontri ovvero le automobiline


Per molti anni gli autoscontri montarono la loro pista metallica per la festa dell'Assunta al Dopolavoro ferroviario di Bussoleno. Ogni anno a cavallo del 15 agosto il paese era percorso dal brivido della grande festa d'estate. Verso sera l'animazione raggiungeva il culmine. Celentano cantava "Ora sei rimasta solaaaa..." e Rita Pavone "Alla mia età....", di tanto in tanto la musica spariva per lasciar posto all'altoparlante che richiamava gli indisciplinati o annunciava una nuova corsa. Così per molte stagioni, finchè durarono i miei soggiorni estivi in campagna. Era interessante, ai bordi della pista, seguire le varie strategie dei partecipanti. C'era chi guidava con sussiego e prudenza, girando alla larga, col viso serio di chi sta eseguendo un lavoro e che tiene a dimostrare di non essere li per divertimento. C'erano i maschi allupati che col viso paonazzo e la smorfia di chi non ha nulla da perdere incollata sulle labbra, puntavano gridando sulle coppie di ragazze chioccianti alla ricerca di cozzi plateali... In mezzo stavano tutti gli altri, adulti con bambini piccoli che cercavano di star fuori dalle mischie lanciando sguardi velenosi a chi si accostava, coppiette assorte ed incuranti degli agguati... Ma su tutti e tutto dominavano gli addetti al controllo della pista. Si trattava di giovani agili e spavaldi che saltavano qua e là sui bordi in gomma delle vetturette per indirizzare, redarguire o più semplicemente staccare i biglietti. Il loro concentrato impegno nello svolgimento della mansione avrebbe meritato ben più alte responsabilità ma ciò che incantava me bambino era la loro ostentata sicurezza e consapevolezza di essere, nella calda serata d'estate, i veri protagonisti della scena.


sabato 3 marzo 2012

Monssù Cerutti («Ch'a lu fica 'n cül a tüti») o il Duce

La visita di Mussolini, il Duce, a Torino nel maggio del 1938 può essere letta in due ottiche diverse. 
Quella della relazione puntigliosa, prolissa,  del giornalista de La Stampa oppure quella di Alessandro 
Barbero che ha il vantaggio di godere della prospettiva storica ormai ben definita e lontana e quindi 
più vicina alla realtà
Tratto da: https://www.museoarteurbana.it/litalia-fascista-e-torino-monarchica/
La Stampa 16.5.1939

A Borgo San Paolo, la Cittadella del lavoro 
Dal «Maramotti» al Dopolavoro della «Lancia» e della «Snia Viscosa» fra moltitudini osannanti 

Era chiamata «la rossa», la borgata rossa, quella di San Paolo negli anni tristi, ormai, dopo tanta onda di storia, già lontani nel tempo e nel ricordo [….]… i nostri occhi, attraverso un settennio, hanno conservato indistruttibile la visione del Duce a un certo momento asserragliato in mezzo alla folla dei lavoratori, stretto, accarezzato dai più vicini, quasi soffocato da un abbraccio che partiva da migliaia e migliaia di cuori in tumulto. Ieri l'abbraccio ideale del popolo di San Paolo al Condottiero che del popolo è la più genuina vivente espressione, ha superato l'episodio del 1932. Incontenibile ardore come allora, non c'è stato bisogno di alcuna preparazione per indurre la gente ad abbandonare le case e correre incontro a Lui: le case del Borgo che attualmente, tra uno svettare di alte, fumose ciminiere, conta più di centomila abitanti, nel chiaro meriggio di ieri si sono vuotate come per incanto. Per la seconda volta ci è toccata la lieta ventura di assistere a San Paolo al gigantesco esplodere dell'entusiasmo che dilagava di via in via e cresceva come un mare in tempesta, non avendo che un nome e una voce: Duce. Dopo l'adunata di domenica e la dimostrazione della Fiat, nessuna manifestazione ha assunto il calore e il colore di questa. E' perchè ancora una volta ha parlato, con squilli di incudine e colpi di maglio, l'anima delle officine: hanno vibrato i nervi nei lavoratori, che hanno amato prima e dopo Mussolini, e sentono fremere tutta la loro ardente passione ogni qualvolta Egli appare davanti ad essi. Un operaio, mentre la calca si faceva sempre più serrata, guardando al nostro taccuino che si riempiva di rapide note, è uscito in questa pittoresca definizione: — Che volete? Il Duce è come una centrale elettrica: l'energia che si irraggia da Lui prende tutti. Nessuno se ne può sottrarre. E con i compagni di lavoro, tornava a cadenzare il gran uomo.
Al Maramotti 
[…] La vivida fiamma ha cominciato ad avvolgere i cuori davanti al Sacrario del Gruppo rionale «Maramotti», che è al centro
del borgo. Qui le Camicie Nere che hanno fatto ala. in dense e profonde formazioni, al Condottiero, erano per i nove decimi costituite da operai: dietro di esse si assiepava la folla delle donne non inquadrate nelle file,, dei vecchi, dei bimbi: il popolo. E da tutti, nell'istante in cui il Duce, preannunciato dalle lontane acclamazioni di altra folla, è apparso, si è innalzato l'urlo senza eguale ad attestargli un affetto che è pure privo di qualsiasi possibilità di paragone. Dopo aver assistito in pio raccoglimento al rito della benedizione impartita dall'arciprete della parrocchia in cui il Gruppo è compreso, il Duce, sorridente, con il Suo consueto passo bersaglieresco ha percorso tutti i locali, elogiandone con il Federale l'ordine e la disposizione; poi, come le Camicie nere e la folla, fuori, non si stancavano di invocarlo, si è affacciato sul terrazzo. Subito dopo, lungo corso Peschiera sfavillante di tutta la gamma pittorica che possa essere offerta da una immensa moltitudine in festa, la Figura leggendaria, ritta sulla macchina, con il volto abbronzato e illuminato da una trasumanata bontà, è riafferrata dal tributo trionfale. Scorta d'onore di ciclisti. Ma ecco lo sguardo magnetico del Condottiero che, calmo sereno, tutto vede e tutto osserva, affissarsi giulivo a destra e a sinistra della macchina, su una miriade di giovani ciclisti, i quali, eludendo ogni disposizione d'ordine, pedalano ai lati del corteggio delle automobili ne delineano con agili virate i movimenti, e si distendono dietro di esse in una coorte che sembra non più finire. E' la scorta d'onore degli operai al loro Duce. Vedremo di volta in volta la folla travolgere i ripari collocati ai lati delle vie e irrompere di corsa dietro le macchine con l'illusione di poterlo seguire, il Duce, di vederlo ancora, di acclamarlo ancora; ma questi lavoratori in bicicletta, hanno trovato il modo di superare l'illusione, di trasformarla in realtà. Ecco gli agenti che montano la guardia alla vettura in corsa del Condottiero: eccoli, o signori che ansimate al di là delle Alpi per il povero popolo italiano soggetto alla schiavitù fascista; eccoli: sono gli operai della Lancia, sono gli operai della Fiat. Avanti con i pedali, o camerali! Il Duce vi guarda e i Suoi occhi ridenti vi dicono che mai Egli è cosi felice come quando si trova in mezzo a voi. Sui gradini d'ingresso del Dopolavoro Lancia, il Duce è stato ricevuto dalla consorte del defunto fondatore dello stabilimento, la signora Adele Lancia, che Gli ha porto con devote parole il saluto suo, dei suoi collaboratori che la attorniavano e dell'intera maestranza. Mussolini, che già la conosceva, si è avviato con lei nell'interno, in affabile conversare. Improvvisamente un coro femminile disposto sul palcoscenico del teatro, ha fatto vibrare l'aria con le note di un nostalgico canto. Il Duce lo ha ascoltato, applaudendo. Presso il palcoscenico la signora Lancia aveva fatto disporre il nuovo modello di automobile, una elegante berlina a quattro posti, cui sarà dato il nome di Ardea e che migliora di assai, anche nella forma della carrozzeria, il tipo precedente. Con 903cc di cilindrata, e con un consumo di sette litri e mezzo per cento chilometri, svilupperà una velocità di 108 chilometri. Il Duce, al quale la macchina è stata presentata, l'ha sottoposta a un minuto esame da conoscitore, quindi ha espresso il Suo compiacimento per la nuova realizzazione uscita dalle officine torinesi. Dai giardini del Dopolavoro, frattanto giungeva il fragore dell'invocazione affannosa dei lavoratori, ed il Duce, poco dopo, salito sulla tribuna eretta al centro, rispondeva ancora col saluto pieno di profonda e intensa solidarietà. Il tempo stringendo, Egli è immediatamente ridisceso per la visita ai locali, che ha pure elogiato. Ricevuto quindi ancora l'omaggio della signora Lancia, dei dirigenti del Dopolavoro e delle officine, dopo aver apposto la Sua firma sul registro presentatogli, è riapparso nel cortile esterno. La Sua vettura si è avviata tra un tumulto di grida osannanti, di applausi frenetici, impossibile a rendersi con semplici tratti di penna. Come fuscelli, i ripari di legno sono caduti, e il torrente in piena si è precipitato dietro la macchina, sempre circondata dai ciclisti fedelissimi. In quali vie è passata per arrivare al Dopolavoro della Snia Viscosa non è possibile dirlo. Dalla nostra 1100 non abbiamo potuto veder che la fiumana in marcia maestosa e il Condottiero, in piedi sulla vettura, nel mezzo di essa. Alla Snia, il Duce è stato ricevuto dal cavalier di gran croce Marinoni, presidente della Società, col quale si è trattenuto affabilmente. Visita rapida, come altrove. Compiacimento con i dirigenti per la magnifica sede dopolavoristica. Poi, partenza. Tutto il Borgo era ora lì. E se la macchina, in presenza del fantastico, prodigioso spettacolo, non avesse forzato la marcia, il Duce sarebbe rimasto prigioniero della immensa massa accalcata. Prigioniero dei lavoratori che avrebbero voluto non se ne andasse più.


2 marzo 2011

E Mirafiori lasciò il Duce da solo sotto la pioggia

di Alessandro Barbero


Il 15 maggio 1939, davanti a un'immensa folla operaia, Mussolini inaugurava a Torino il nuovo stabilimento della Fiat Mirafiori. Era la seconda grande fabbrica che Giovanni Agnelli creava nel capoluogo piemontese, dopo l'avveniristico stabilimento del Lingotto, aperto nel 1922. In quell'occasione, a celebrare i fasti della Fiat e sancire la sua alleanza con lo Stato era venuto il re, ma stavolta fu deciso che a inaugurare Mirafiori sarebbe venuto il Duce in persona: quello che a Torino, quando non c'erano troppe orecchie in ascolto, chiamavano in dialetto Monssù Cerutti («Ch'a lu fica 'n cül a tüti», e forse non c'è bisogno di traduzione). Non era ovvio che Mussolini quel giorno venisse a Torino, anzi non era ovvio per niente che nell'Italia fascista fosse sorta una fabbrica come Mirafiori, capace di impiegare su due turni 22mila operai. Una retorica oggi dominante pretende che nell'Italia degli anni Trenta il consenso al regime fosse pressoché universale; basta leggere le informative di polizia che ogni giorno arrivavano sul tavolo di Mussolini per sapere che non era così, e che fra le concentrazioni operaie delle grandi città del Nord l'ostilità al fascismo e l'adesione a ideali socialisti e comunisti erano largamente diffuse. Perciò il Duce non amava le grandi fabbriche, così vulnerabili, oltretutto, ai bombardamenti aerei, di cui già allora si prevedeva la spaventosa efficacia. Mussolini avrebbe preferito che l'industria italiana decentrasse la produzione; ma Agnelli voleva Mirafiori e dopo una serrata trattativa strappò il consenso alla costruzione del nuovo, colossale stabilimento, in cambio dell'impegno a costruire diverse altre fabbriche fra Marche e Toscana. Così quel 15 maggio 1939 Mussolini era a Torino, o meglio fuori Torino, perché l'area dove Mirafiori era venuta su dal nulla non era ancora urbanizzata, e si stendeva fra prati e gerbidi, non lontano dalla palazzina sabauda di Stupinigi. In omaggio alla politica sociale del regime, c'era accanto alle officine un grandioso dopolavoro, con piscina, campi da pallavolo e cento campi da bocce; c'era la mensa aziendale da 11mila posti, anch'essa una novità imposta dal Duce, perché «l'operaio che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è di questo tempo fascista»; c'era la rimessa per le 10mila biciclette con cui si prevedeva che gli operai sarebbero venuti al lavoro, e c'era, inevitabile, il rifugio antiaereo per l'intera manodopera, giacché Mussolini sapeva bene che la guerra sarebbe venuta, ed era deciso a non restarne fuori. Era insomma, come dichiarò lo stesso Duce, «la fabbrica perfetta del tempo fascista»; eppure Mussolini non era sicuro dell'accoglienza che avrebbe ricevuto. Era stato in visita ufficiale in Piemonte per la prima volta sedici anni prima, nel 1923, e prevedibilmente aveva esaltato tanto la tradizione militare piemontese (i «magnifici battaglioni») quanto «le mille ciminiere dei vostri stabilimenti», «questa vostra splendida città del lavoro» da cui si diceva frastornato e abbagliato. Il silenzio con cui lo avevano accolto gli operai non l'aveva smontato più di tanto: «Se in dodici mesi sono riuscito a farmi ascoltare, l'anno prossimo mi applaudiranno», dichiarò andando via. Però in occasione della sua seconda visita, nel 1925, aveva sentito il bisogno di dichiarare: «Si dice che il Piemonte è freddo. Non è vero. Il Piemonte è serio. La differenza è sostanziale!», e, in tono ancor più rivelatore di una malcelata insicurezza, «Si è detto che il Piemonte non è fascista. Altro errore!». Dopodiché non si era più fatto vedere per ben sette anni: tornò soltanto in quelli che altrove in Italia erano davvero gli anni del consenso, nel '32, nel '34, e per la quinta volta appunto nel '39. Tornava; ma i rapporti di polizia non erano incoraggianti. «Nella massa lavoratrice si riscontra sempre un ambiente decisamente avverso alle istituzioni del regime», scrivevano gli informatori nel dicembre 1937. La crisi economica e i provvedimenti per l'autarchia «hanno creato una ostilità latente per il regime, ostilità che pubblicamente non si manifesta per paura ma che può essere provata e sentita da tutti», si rincarava nel dicembre 1938. Le leggi razziali erano state accolte gelidamente, in particolare dagli ambienti cattolici, che a Torino e in Piemonte non erano - e non sono - così protagonisti della vita collettiva come avviene ad esempio a Milano e in Lombardia, ma avevano una loro discreta influenza: «Perdura l'incertezza o il malcontento di tutti», confessava la polizia, e precisava: «Negli ambienti cattolici si biasima apertamente la politica antiebraica».  Quanto all'ipotesi della guerra, e di una guerra contro la Francia e al fianco dei tedeschi, che in quella primavera del 1939 aleggiava già oscuramente nell'aria, il giudizio era ancora più netto: «Lo stato d'animo della popolazione torinese nel presente momento è chiaramente avvertito da chiunque: esso è nettamente contro ogni guerra e contro la Germania». «Udendo discorsi che qui si fanno ovunque, si ha la sensazione di trovarsi in una città che non è fascista», concludeva sgomenta la Questura torinese.
Perciò la visita del Duce fu preparata con misure eccezionali. Come si faceva sempre in questi casi, si provvide a mettere in guardina un certo numero di oppositori e sovversivi. Ma fu soprattutto la Fiat, che non voleva incidenti, a pianificare con cura la partecipazione delle masse. Tutti i dipendenti ricevettero l'ordine di presentarsi a Mirafiori la mattina del 15 maggio, con un cartellino che bisognava timbrare prima delle otto. Perciò, fin dalle prime ore del mattino decine di migliaia di persone si accalcavano davanti al palco costruito accanto all'officina principale, mentre gli operatori dell'Istituto Luce armeggiavano per riprendere le sequenze del documentario che avrebbe testimoniato l'abbraccio tra il Duce dell'Italia fascista e le masse dei lavoratori. Mussolini non ebbe fortuna: quel mattino diluviava. Chi ebbe fortuna furono le autorità locali, cui non parve vero di poter attribuire alle ore di attesa sotto la pioggia l'esito catastrofico della giornata. Quando Mussolini arrivò a Mirafiori, fra le cinquantamila persone (tante, almeno, secondo la Questura) assiepate ad attenderlo gli applausi furono radi e svogliati. La direzione Fiat aveva dato istruzioni precise, di battere le mani al suo arrivo e ad ogni pausa del discorso, «invece nessuno ha fatto niente di tutto questo», ricorda, forse con un po' di ottimismo, un'operaia. Gli applausi e le grida di Duce! Duce! vennero soprattutto dalle prime file, dov'erano gli impiegati e i membri del partito in uniforme. E in camicia nera era anche il settantatreenne Giovanni Agnelli, ex ufficiale di cavalleria e senatore del Regno, che quarant'anni prima aveva fondato la Fiat e che ora saliva sul palco accanto al Duce. «Camerati operai!» cominciò Mussolini, rivolgendosi ai cinquantamila zuppi di pioggia. Procedette poi, con qualche fatica, a spiegare quant'era importante che lui fosse lì, e che loro fossero venuti ad ascoltarlo, per disperdere le voci malevole secondo cui in Piemonte, e soprattutto fra gli operai, allignava la mala pianta dell'antifascismo. «Il Piemonte è fascista al cento per cento. E questo sia detto una volta per sempre, onde fare tramontare certe ridicole illusioni» dichiarò, da quel grande attore che era, benché non ci credesse nemmeno un po'. Esaltò, e non aveva neanche tutti i torti, le provvidenze che il Regime aveva introdotto per i lavoratori, e di cui le meraviglie del nuovo stabilimento erano la prova tangibile. Poi, sconcertato perché gli applausi erano sempre pochi, sbagliò, come gli capitava di rado di sbagliare dal palco: si vede che trovarsi lì non lo ispirava. In un discorso di cinque anni prima, a Milano, dove era abituato a trovare folle ben più entusiaste, aveva promesso agli operai salari equi, case e lavoro, e addirittura una partecipazione alla gestione delle fabbriche, non si sa con quanta soddisfazione di Agnelli e degli altri industriali. Ma invece di ripetere queste promesse, si limitò a dichiarare agli operai che erano sempre valide, proprio come le aveva formulate nel discorso di Milano. Nessuno sapeva di cosa stesse parlando, e gli applausi, tanto per cambiare, furono tiepidi. Irritato, Mussolini sbagliò ancora: chiese alla folla se non ricordava il discorso di Milano. I più zelanti, per non sbagliare, gridarono di sì; ma erano pochi. Allora al Duce saltarono i nervi. Strillò: «Se non lo ricordate, leggetelo!», e si voltò per andarsene. Agnelli, costernato, gli corse dietro, lo prese per le spalle e lo costrinse letteralmente a tornare indietro per salutare la folla; Mussolini tornò ad affacciarsi, fece il saluto romano, poi se ne andò davvero senza aggiungere altro. A Torino non sarebbe più venuto; ma si ricordava certamente di questa spiacevole esperienza, e nel ricordo accomunava, forse non a torto, il monarchico Agnelli e i suoi operai comunisti, quando tuonava da Salò, nel giugno 1944, alla notizia degli scioperi che paralizzavano Mirafiori: «Il centro della Vandea monarchica, reazionaria, bolscevica è il Piemonte».

 




venerdì 2 marzo 2012

Janos Veress (o Veres): chi era costui?

Il nome di Veress non dirà molto alla maggior parte dei lettori di questo post. Eppure se adesso, a distanza di più di 70 anni, molte persone sono operate tranquillamente mediante il principio mini invasivo endoscopico, lo dobbiamo a questo tranquillo medico ungherese. Fu lui infatti, alla fine degli anni '30 del secolo scorso, ad ideare ed utilizzare nella cura della tubercolosi, un ingegnoso ago che permetteva di creare un pneumotorace (collabimento del polmone malato) in grado di favorire la guarigione.

(Da Wikipedia)

La sua carriera fu lunga e costellata di brillanti intuizioni. Si narra per esempio che in paziente affetto da pleurite in cui si era raccolta un discreta quantità di liquido nella pleura, dopo che si fu aspirato l'essudato iniziò una crisi di singhiozzo inarrestabile. Per 11 giorni il malato non potè mangiare, nè dormire scosso da un continuo e inarrestabile singhozzo. Veres risolvette il problema inducendo un pneumoperitoneo, gonfiando cioè l'addome con aria: in tal modo la spinta del diaframma verso l'alto fu sufficiente a inibire il riflesso alla contrazione del muscolo.  

Nato nel 1903 in un villaggio sul confine magiaro si laureò nel 1927 presso l'Università di Debrecen. Diventato specialista in medicina interna nel 1932 iniziò la sua esperienza trattando quasi mille casi di pazienti affetti da tubercolosi mediante la creazione di un pneumotorace. L'ago di sicurezza, ideato per questa manovra potenzialmente pericolosa per l'integrità del polmone, venne ufficialmente pubblicizzato solo anni dopo, nel 1938, in un articolo redatto in lingua tedesca. Circa 20 anni dopo fu un altro medico di scuola tedesca Kurt Semm a diffondere universalmente  questo semplice ma geniale strumento. Nel 1973 Janos Veress lasciò il lavoro in ospedale e si ritirò a vita privata, pur continuando a svolgere mansioni mediche presso le famose terme Gellert di Budapest. Una curiosità. Veress si firmò indifferentemente in molti lavori scientifici con la doppia "S" finale come con la singola. Di questo fatto non diede mai una spiegazione.