domenica 26 novembre 2017

Mio padre e il Generale Badoglio

Mio padre quando tornò dalla Germania aveva i pidocchi. Tornava dal campo di lavoro di Gaggenau dove nel giugno del '44 era stato deportato dai tedeschi, nel quadro del reclutamento forzato di manodopera da impiegare nella produzione bellica dell'ex stabilimento Daimler Benz. Ci pensavo oggi in occasione di una visita nel paese natale di Pietro Badoglio. La giornata era splendida, il vento aveva spazzato via nubi e foschie permettendo una vista di 360° dal sagrato della chiesa dei SS. Vittore e Corona. Nello stesso mese di giugno 1944 Badoglio rassegnava le dimissioni dal primo governo post fascista. Un uomo per tutte le stagioni davvero. Non penso che a mio padre il fatto politico interessasse molto, divorato com'era dai parassiti e preoccupato di tener lontana mia madre che dopo mesi voleva giustamente riabbracciarlo. 
Oggi il cielo era terso a Grazzano Badoglio, non una nube, lontano la cerchia innevata delle Alpi lasciava riconoscere ogni vetta nei minimi particolari. Il tempo passa, la gente dimentica. In paese, davvero carino e ben tenuto, ad ogni passo si cita il Maresciallo d'Italia. L'ex asilo dedicato alla madre, la via di circonvallazione, la casa di riposo. Penso sia una risorsa importante per il turismo e per quelli come me che sono curiosi e cercano di leggere nelle pietre e nei libri qualcosa di un passato dimenticato troppo in fretta. Grazzano mi ha colpito positivamente. Tra le altre cose, dopo aver girovagato per le sue vie (case ben curate, interni, quelli visibili, anche), come sempre faccio quando visito piccoli paesi o grandi città mi sono recato nel cimitero del paese. Il lungo viale con le grandi Tuie potate a uovo, è maestoso, la vista splendida. Lì nella tomba di famiglia in pietra dei Badoglio sull'altarino c'è una fotografia molto conosciuta del generale italiano. Mi sono soffermato sull'espressione singolarmente espressiva del'uomo, oltre le mostrine e la visiera del cappello che vela lo sguardo. Sembra in procinto di scoppiare in lacrime, le labbra sono tirate con gli angoli rivolti al basso. Ma si tratta certamente solo di un'impressione perchè non mi risulta che, al pari di molti suoi simili, il maresciallo d'Italia abbia mai avuto rimorsi sugli atroci metodi di guerra che ebbe a sperimentare in terra d'Africa e che fonti ormai certe (Del Boca 1996 pag. 141-142 e 2005 pag.202) gli attribuiscono. Mi riferisco ai gas  utilizzati per lo sterminio degli Etiopi. Oggi su Grazzano Badoglio il cielo era limpidissimo, sull'ampio piazzale davanti al portale in mattoni del cimitero, stonavano con la gioiosa luminosità del pomeriggio novembrino solo il residuato bellico austriaco, un cannone puntato sul curioso visitatore e le lapidi dei caduti nel giardinetto retrostante. Di tutto ciò (gas, massacri, adesione alle Leggi  Razziali) nel sito del comune e in quello della Fondazione omonima non c'è traccia. Avrei voluto visitare il luogo natale di Badoglio ma un cartello avvertiva che le visite riprenderanno nell'anno venturo, in primavera. Tornerò sicuramente. Ho negli occhi partendo le due lapidi affisse a sinistra del cancello d'ingresso della casa natale. La prima è del '38 e vi si celebra il fatto che Badoglio portò le falangi armate alla conquista dell'Impero. La seconda più modestamente con linguaggio tortuoso e aulico celebra "con gratitudine il grande concittadino". A mio padre penso fosse indifferente la questione coloniale e di gratitudine al Maresciallo d'Italia penso ne riservasse ben poca. Impegnato com'era a lottare con i più terreni pidocchi. 


 

                                       Papà agosto 1940                                Badoglio 1934



domenica 29 ottobre 2017

Giacomo Grosso, l'immorale...

I fatti sono noti a chi conosce bene il pittore di Cambiano. Tutto nacque con la presentazione all'Esposizione di Venezia del 1895 del quadro Supremo convegno. In questa tela un cadavere è disteso in una bara aperta ed è circondato e sovrastato da donne nude. Sono femmine che un tempo da vivo gli procurarono piacere e che ora lo attorniano in un simbolico «supremo convegno». Il fatto che la scena si svolga apparentemente in una chiesa immersa nella penombra suscitarono l’immediata levata di scudi di quella parte di contemporanei sempre attenta a limitare la visione di tutto ciò che poteva turbare o ledere la loro sacrosanta morale cristiana. La richiesta di non presentare l’opera fu respinta a seguito del giudizio positivo di una commissione all’uopo istituita. Della stessa faceva parte Fogazzaro che, pur fervente cattolico, così  giustificò il suo giudizio: «Le nudità del «Supremo Convegno» in quell'atto, in quel luogo, mi parvero dover produrre una impressione profondamente morale. Nell'arte il nudo ha diversi linguaggi […]. Le femmine del «Supremo Convegno» sono apparse alla fantasia dell'artista in un'alta e tragica ispirazione e la loro nudità bestialmente ostentata, orribilmente profanatrice, ha un alto, tragico linguaggio. Il viso del morto, le membra delle vive, voglion dire e dicono con efficacia terribile le colpe e castighi di una passione tutta brutale». Il patriarca di Venezia però fu di tutt’altro avviso e rivolse al clero veneziano la preghiera, equivalente a proibizione assoluta, che nessun sacerdote visitasse la Mostra fino a tanto che fosse esposta quella tela. Inoltre fu pubblicato nelle sagrestie un avviso col quale si ricordava a tutti i preti forestieri la proibizione fatta ai sacerdoti del patriarcato. Elisabetta d'Austria, da gran dama qual'era, lo volle vedere. Pare che sorridendo avesse esclamato: soprattutto ci son troppi fiori.... Di tutt'altro avviso la nostra Regina Margherita che pare non volle guardarlo: l'episodio sembra però smentito secondo quanto riportato da La Stampa.
E' dell'ottobre 1895 la notizia, sempre su La Stampa di Torino, che il quadro è stato acquistato dalla The Venice Art Company per conto di un grande negoziante di Chicago per la somma di 15mila dollari. Numerose furono le richieste di esposizione da parte di gallerie inglesi e tedesche, richieste che però rimasero sulla carta.
Nel dicembre del 1900 sembrò che i fulmini verbali del patriarca di Venezia, il futuro papa Pio X, centrassero il bersaglio. Come riporta il quotidiano newyorchese il Progresso ItaloAmericano, il quadro, esposto da 2 mesi a Broadway in un vecchio fabbricato affittato per l’occasione e arredato con drappi di velluto, viene distrutto da un incendio partito proprio da una delle numerose cortine di stoffa. Due inservienti rimasero gravemente ustionati nel tentativo di spegnimento delle fiamme. Il dipinto non si potè comunque recuperare. Si concluse così nel fuoco l’esistenza di questa sfortunata opera d’arte  e chissà quante pie menti non videro nell’evento la mano implacabile della giustizia divina!
Uno strascico della vicenda si ebbe due anni più tardi quando nella chiesa di San Gioacchino davanti alla stazione della Torino-Cirié, costruita su disegni dell'architetto Ceppi, allo pareti delle due navate laterali fu lasciato lo spazio per dipingere, in tanti quadri di circa venti metri quadrati l'uno, tutte le stazioni della Via Crucis. Due opere furono affidate al Grosso che però potè solo dipingerne tre mezze figure per via di tanti altri impegni che aveva per le mani. La diffida del parroco arrivò puntuale. Non avendo il Grosso ottemperato all'impegno, i suoi servigi erano da ritenersi conclusi. Furono inoltre sempre dal parroco mosse critiche per via del fatto che la croce e la figura del Cristo erano troppo piccini e non campeggiavano com'era suo desiderio. A nulla servì la mediazione dell’industriale donatore e di altre persone. Quando il Grosso si recò per ultimare l'opera sua non trovò neanche più il palco su cui salire: era stato tempestivamente rimosso dall’inflessibile parroco. Scrive il giornalista della Stampa: “Noi non vogliamo credere, come fu bisbigliato sulle prime, che la deliberazione e l'atto ostile siano stati fatti in odio al pittore del Supremo convegno e della Nuda.“ Il pittore venne quindi citato in giudizio dall'animoso parroco che vincendo la causa, ottenne un rimborso di 500 lire. Nel giugno 1898 un articolo della Stampa riporta che il dipinto "si sta distruggendo" e che si è provveduto a chiamare da Bergamo un pittore in grado di riaffrescare la parete. Non è chiaro nell'articolo cosa si intendesse per questa apparente autodistruzione dell'opera.  
La riabilitazione avvenne anni dopo quando nel 1918 in Vaticano Giacomo Grosso eseguì il ritratto del Pontefice Benedetto XV opera dallo stesso molto apprezzata.
C’è da notare come alcune opere del nostro come pure alcuni luoghi in cui esse erano conservate ebbero in tragiche circostanze una fine ingloriosa soprattutto legata ad incendi. Oltre al Supremo Convegno in cenere finirono gli affreschi del soffitto del Teatro Regio a Torino e pure quelli di San Gioacchino nel 1943 in occasione dei bombardamenti alleati alla città. Singolare destino davvero!
Post scriptum: come in tutte le vicende misteriose che si rispettino, non mancano le notizie contraddittorie a proposito della fine del dipinto. Un articolo di Repubblica del 1995 riporta che il quadro fu venduto e collocato in un castello in Provenza dove in seguito bruciò…
Altri riportano che la distruzione avvenne durante la traversata in mare verso l’ America.
In un altro articolo viene riportata la possibilità di vedere quel che resta del dipinto in questione “bruciato in parte”


Il quadro nell'Esposizione veneziana del 1895

domenica 15 ottobre 2017

La casa in campagna




La casa sorge lungo la ferrovia che porta in Francia. Un tempo, in verità lontano, c'era un passaggio a livello. I treni erano frequenti per cui il suono scampanellante delle barriere a righe bianche e rosse che si abbassavano ogni ora era una costante sia di giorno che, meno frequentemente, di notte. Prima della sua costruzione,  nel 1954, al posto della casa c’era un grande prato con un lavatoio ad uno degli angoli. Le due grandi vasche erano alimentate da un flusso continuo d'acqua. Acqua dal sapore metallico sempre fresca. Con quell’acqua mi bagnavo i capelli quando tornavo sudato dalle scorribande in montagna in genere non molto lontano perché l’area dei miei vagabondaggi era ristretta. Sotto il lavatoio scorreva la bialera, già in quegli anni lontani un inutile canaletto d’acqua corrente che non serviva neanche più ad irrigare gli orti. Molte furono le estati che trascorsi in quella casa, assistendo ai riti paesani che vedevano  a metà luglio l'arrivo della grande trebbiatrice arancione e poco dopo quello degli autoscontri e giostre per la festa dell'Assunta di metà agosto. Celentano cantava "Ora sei rimasta sola", Rita Pavone "Alla mia età". Era estati lunghe e solitarie. La noia accompagnava i lunghi pomeriggi di sole, ma era una noia accettata con serena rassegnazione. Pochi gli amici, molta fantasia nel pensare sempre nuovi giochi. I compiti per le vacanze un fastidioso impegno da portare a termine il più presto possibile. Il futuro non esisteva. L'abbandono dei soggiorni estivi nella casa di campagna avvenne gradualmente a iniziare dal 1966 quando, quindicenne, iniziai a diradare le "salite" (si diceva infatti "Vado "su" a Bussoleno). La casa era stata voluta da mio padre: doveva diventare un luogo di ritiro e di riposo, lì avrebbe dovuto stabilirsi una volta andato in pensione. Gli ultimi 20 anni della sua vita invece lo videro sempre pendolare tra la città e  la campagna, viaggi sempre in ferrovia (non aveva mai voluto prendere la patente), aperture e chiusure delle due case, trasporto pendolare di masserizie e cibi. Sia mio padre che mia madre sono morti in questa casa.
Negli anni essa ha subito un costante degrado, gli scalini in graniglia della veranda si sono sbriciolati e qua e là albergano piantine di erbe infestanti. In giardino l'erba è cresciuta fino a cancellare le aiuole e lo stretto passaggio, lungo la cancellata, che regolarmente si ricopriva di migliaia di aghi del maestoso pino cresciuto incontrollatamente nel giardino. Ho dovuto lentamente separarmi da tanti oggetti, oggetti che negli anni si erano sedimentati in fondo agli armadi, nei cassetti e in cantina. Per lo più cose inutili, scritti, libri di scuola quaderni, giocattoli, depliants... una lista infinita di piccole cose con ogni singolo pezzo a ricordare un anno particolare, un periodo distinto della mia vita (all'università, al liceo e poi sempre più indietro fino ai primi anni 50 quando casa voleva dire soprattutto corso Ferrucci, nella grande città). Ho dovuto gettar via molte cose. Cose che giacevano da anni, decenni ignorate e poi per una manciata di secondi riprendevano vita, tornavano a collocarsi per incanto in un tale anno, in una tale epoca della mia vita. Non sono mai riuscito a non colorare di emozioni oggetti semplici e inutili ritrovati per caso. Per cui ogni volta che ho dovuto separarmi da qualcosa, era con un certo momento, con un qualche ricordo che dovevo fare i conti e non con una macchinina senza ruote o con un soldatino senza più una gamba.
Bussoleno paese è un luogo privo di fascino che negli anni amministratori senza fantasia nè iniziative hanno reso ancora più desolato. Ma è anche luogo di memorie e tale resterà anche quando chiuderò per l'ultima volta la porta della mia casa e consegnerò le chiavi al nuovo proprietario. Lascerò quindi i miei tre alberi, il mostruoso pino che ormai incombe minaccioso sulla via e sulla casa, il melo che ha l'età di mio figlio e che non ha mai regalato un frutto che non fosse aspro e bacato. Poi dietro casa il nespolo che per anni ha lottato con un terreno sterile e ostile e che adesso è rigoglioso e generoso in piccoli frutti saporiti.

sabato 14 ottobre 2017

Mirò: ma questa è arte?

Premetto: non sono un appassionato di arte moderna ma nei tanti anni che mi han visto frequentatore di tantissimi musei in giro per l'Europa, ho apprezzato pur con una riserva mentale tante opere definite dai critici capolavori. Sarà pur vero che all'arte moderna devi essere introdotto, istruito e preparato. Non è arte figurativa di fronte a cui puoi porti nella maniera più umile e semplice possibile (mi piace/non mi piace). Nell'arte moderna il campo comunicativo si allarga. Intervengono reazioni quali "cosa significa? cosa ritrae? " che anche se sbagliate come approccio sono umanamente comprensibili. Intervengono pure reazioni affettivamente più complesse come irritazione (ma perchè perdo tempo a vedere questi imbrattatele) o autoreferenziali (questo schifo son capace anch'io di dipingerlo).
Tutto questo preambolo per dire che sono appena stato alla mostra su Mirò che si tiene a Palazzo Chiablese a Torino. Mai visita fu più veloce e inapprezzata. Conoscevo poco Mirò per averne visto riproduzioni e tele sparse qua e là nei vari musei. Così tante opere raggruppate in mostra non le avevo ancora viste. All'uscita mi son chiesto cosa ci fosse dietro la magnificazione di un simile artista. Sappiamo come da sempre i critici che contano possano creare  distruggere l'immagine di un artista tanto più se parliamo di arte moderna dove le fumose chiacchiere che puntellano una carriera o una serie di opere sono fondamentali. Ebbene in nessun quadro di Mirò son riuscito a cogliere il sublime graffio del genio. Scarabocchi mi son parsi, macchie di colore messo lì a caso (la famosa e per certi versi fuorviante "ispirazione") non un solo tratto che ti riveli l'artista che cova sotto i colori e i simboli. Anche Picasso ha dipinto quadri discutibili ma in lui anche il profano riesce a cogliere le stimmate dell'arte. Mirò no. E se vogliamo andare a quel volpone di Dalì che ha usato un marketing furbesco geniale, anche lui rivela non tanto nella logorroica fantasia quanto nel disegno una scuola non comune. Perchè è questo che io voglio riconoscere in un pittore, il tratto che supera il virtuosismo per trasformarsi in arte. Se non sai disegnare, detto terra terra, sei un imbrattatele al di là di quanto puoi aver avuto dagli onnipresenti critici. Forse il punto chiave di tutta l'arte moderna sta proprio nel fatto che è proprio che i quadri spesso non sono spiegabili razionalmente e il titolo non aiuta quasi mai. Viene comunque il sospetto che neanche al pittore è chiaro cosa ha dipinto. La fortuna di molti artisti moderni è stata quella di avere incontrato il favore della critica. Il connubio interessato/disinteressato, a seconda dei casi, tra critico e artista genera il successo dell'opera e la inserisce in un circuito di apprezzamenti universali. Ma ciò presta il fianco, ahinoi, a molti maliziosi scenari….  

venerdì 25 agosto 2017

Umberto I Il re "buono"

Leggendo l'esemplare biografia di Umberto I di Ugoberto Alfassio Grimaldi (Feltrinelli 1971, IV ed.) a pag. 198, nelle note, è riportato uno stralcio di un'altra biografia, meno nota questa, di Paolo Valera uscita nel 1920.  Interessante è leggere come il re degli italiani, noto per sua insaziabile fame di donne, reclutasse le sue vittime (?). Il punto interrogativo è d'obbligo in quanto pare di capire che non ci fosse una vera e propria coercizione ma che molto contasse lo spessore della busta che suggellava la prestazione amorosa. Ma leggiamo:
"Umberto non era un taccagno, I capricci d'alcova li pagava con una busta chiusa che consegnava lui stesso all'avventizia con i ringraziamenti . Le avventizie non venivano accettate che precedute dalla fotografia. Una volta accettate il sovrano mandava la carrozza chiusa a prenderle. Ho assistito a questa volgarità reale due o tre volte. Di solito il domestico soleva premere il bottone al di lei uscio quando si stava per andare a pranzo.."
Valera avvicinò una di queste ragazze:
"La prima volta le ha dato seimila lire. Me le sono guadagnate mi ha detto l'avventizia. Tu non puoi immaginare il tempo che si sciupa prima di giungere a lui. Ti si chiude in un salotto dove è un grande album pieno di fotografie di donne godute. E' tutta una esposizione femminile. Questo fatto senza importanza mi ha così disgustata che sarei scappata via, mi diceva l'avventizia reale. C'era tutto il marciapiede nazionale e internazionale. Alcune le avevo conosciute. Tra quelle fotografie ho trovato mia sorella..."
Ecco. Uno spaccato dell'Italia di fine '800 a guida monarchica. Ma le pieghe della storia sono generose e celano molto delle umane debolezze di una stirpe destinata ad una fine ingloriosa. Il baffuto martire dei savoia che di lì a poco cadrà sotto i colpi del Bresci a Monza, rimarrà nei libri e nelle  nostalgiche tronfie celebrazioni il Re Buono. La memoria di un popolo è corta se, finita la seconda guerra  mondiale, quella stessa monarchia che aveva dato all'Italia infinite sciagure e esempi umani di bassezza infinita solo per pochi voti non continuò a reggere le sorti del nostro disgraziato paese.

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martedì 23 maggio 2017

Piazza Valdo Fusi: storia di un orrore

Nell'orrida sistemazione della grande piazza, voluta da un improvvido assessore di tanti anni fa, sorge infossata una pista da skate. Non si può dire che si tratti di un manufatto degno degno di attenzione, tutto è minimale e solo la passione e la buona volontà dei ragazzi che la frequentano la nobilita e rende utile. Tutt'attorno c'è la celebrazione di quel che non bisogna fare (in senso urbanistico ma soprattutto di scienza dei materiali) nel concepire uno spazio pubblico: ampi spazi irragionevolmente vuoti, lastre di cemento che si sbriciolano col passare degli anni, graffiti a testimoniare un po' ovunque l'imbeccillità che non perde mai l'occasione di esporre su muri, griglie o vetri il vuoto mentale degli autori. E dire che il grande spazio prospiciente il vecchio ospedale San Giovanni Battista per quasi tutta la prima metà del secolo scorso vide ospitata nientemeno che la sede del Politecnico e in precedenza del Regio Museo Industriale. Ci pensarono i bombardamenti della seconda guerra mondiale nel 1943 a radere al suolo tutto l'isolato che così rimase spoglio per un cinquantennio circa. Non che il colpo d'occhio della vecchia piazza antecedente il 2005 fosse migliore. Avevamo allora una distesa piatta. con qualche esile alberello, adibita a parcheggio: a quei tempi l'intera area era taglieggiata da individui che praticavano indisturbati ogni sorta di attività: posteggiatori abusivi, ricettatori che tentavano di piazzare merce rubata, tossici e da ultimi zingari assillanti. Questo almeno ora è scomparso. Quel che rimane è la bruttezza del cratere di cemento. Ci provò i celebre Alvar Aalto a formulare un bel progetto con tanto di centro alberghiero e centro congressi, aperto verso ovest con tanto verde e aree pedonali: forse troppo grandioso e futuribile per le ristrette menti sabaude degli amministratori cittadini.....
Da allora sono passati  anni, tanti, è cambiato anche il secolo e questi grandiosi progetti sono ormai caduti nell'oblio. Resta l'immonda ferita del tessuto urbano cui tutti chi più, chi meno, han fatto l'abitudine. Rimane il rimpianto di non poter vedere una targa commemorativa che reciti:



domenica 7 maggio 2017

Marsiglia appunti della primavera 2017


Città che si ama o che si odia senza vie di mezzo, diceva Izzo tanti anni fa. E a me Marsiglia è piaciuta da subito appena ho calpestato le sue strade sporche, disseminate da innumerevoli buche, appena ho visto le facce di un'umanità sospesa sulla miseria del quotidiano, i negozi la cui offerta si ripete all'infinito, kebab, piccoli fatiscenti bistrot e tante serrande abbassate coperte di graffiti e manifesti che annunciano il ritorno della rivoluzione vincente. Quel che in altre metropoli viene spinto ai confini qui a Marsiglia è nel centro, nel cuore profondo della città. Non ho visto vie dello shopping nè le vetrine del lusso delle grandi griffes. Ho invece visto magazzini, uffici, insegne di professionisti, medici, avvocati, ragionieri, assicuratori... Ovunque i segni del lavoro nascosto. Per contro sono migliaia le persone che popolano i boulevard e le strette vie del quartiere a sud della stazione. Non fanno nulla, fumano, siedono ai bar con davanti un caffè, al limite chiedono rispettosamente l'elemosina ma senza guardarti negli occhi, senza implorare. Tutti aspettano che il tempo passi. Le bellezze di Marsiglia sono nelle vie del centro: bisogna alzare gli occhi per individuare le abitazioni del 900 e la loro dignitosa presenza. In basso tutto è lordato dalla mano dell'uomo e dal tempo. Non solo i graffiti che tappezzano ogni spazio, qualcuno bello molti semplici segni senza nessuna pretesa... poco fa di ritorno dal supermercato della Canebiere, ho letto su di una placchetta dell'elettricità, scritto in piccolo, "j'existe". Esisto, sono, scrivo sui muri perché non so cosa fare d'altro,  per dare un senso alla mia giornata e a tutte quelle che seguiranno. La bellezza di Marsiglia, se abbiamo la pazienza di cercarla, è tutta di fuori. Sempre in rue Canebiere al 62 una coppia di cariatidi segna l'entrata maestosa dell'edificio che vide la nascita del cinema dei fratelli Lumière. Adesso le due virago fanno corona all'insegna circolare del logo di un grande magazzino. Il palazzo è passato nei decenni di mano in mano, sempre scendendo un po' in lustro e importanza. Se non fosse per le poche righe di una guida che ricordano le sue nobili ascendenze nessuno lo noterebbe. Marsiglia è piena di decadenze e di storie illustri dimenticate, bisogna solo aver la pazienza di andarle a cercare. 



domenica 30 aprile 2017

Piazza Madama Cristina a Torino: commerci, vicende e cronaca nera



Piazza Madama Cristina, da sempre il cuore pulsante  del quartiere di San Salvario, fu teatro fin dalle origini a coloriti episodi di vita cittadina, nel bene e nel male... Il mercato che fin dalla metà dell'800 ha animato la piazza, con le sue caratteristiche di luogo di incontro, di affari leciti e non, ha certamente contribuito ad alimentare gli episodi di cronaca. La riottosità degli ambulanti era una costante di molte notizie sempre concludentesi con trasferimenti in ospedale o in questura a seconda dei casi.  Un altro elemento di instabilità era fornito dalle osterie e dalle cantine che si affacciavano sulla piazza: qui nascevano spesso, complici gli eccessi nel bere, liti e diverbi che vedevano nell'uso del coltello o del bastone il tragico epilogo. Bisogna dire che le cronache di fine '800 erano molto più attente di oggi a dare grande risalto a ogni fatterello che si discostasse dalla tranquilla laboriosità della comunità del quartiere. Le notizie erano quasi costantemente dei semplici trafiletti di una decina di righe in seconda o terza pagina. L’occhio attento del cronista riusciva a sintetizzare in poche parole drammi sociali molto spesso di povertà e malattia. E’ per esempio del 1885 la notizia di un facchino 22enne che è vittima di un attacco epilettico in piazza. Soccorso da una guardia urbana dichiara di essere  digiuno da 30 ore: la stessa guardia provvede a rifocillarlo in una vicina trattoria con pane minestra e vino. La stessa notizia, questa volta con nome e cognome dello sventurato, si ripresenta due  anni dopo: nuovamente in piazza il facchino giace semi assiderato e affamato. Di nuovo una guardia lo soccorre e provvede al pasto…  La piazza era da molti anni sede di un animato mercato di quartiere: la Stampa riporta la richiesta dei commercianti di poter disporre di una tettoia come riparo dalle intemperie. Ma sette anni dopo la questione tettoia sembra ancora lungi dall'essere portata a compimento...Migliorano invece la viabilità e i collegamenti col centro città: un' ippoferrovia da Porta Milano (Porta Palazzo) arriverà in piazza Madama per poi volgere verso il Valentino. Nel mese di agosto 1878 un trafiletto riporta "Gioite abitanti di Piazza Madama Cristina... Domani si aprirà la nuova linea di tramways che collegherà Porta Palazzo con la piazza trasportandovi un'immensità di popolo!"  Il tutto in 18 minuti al costo di 10 centesimi. La cronaca nera rimane confinata a risse per motivi di gelosia ("gelosia di donne" cita l'articolo de La Stampa) o per liti familiari. Un "fabbro, laborioso e di cuore" all'uscita da un'osteria di Piazza Madama, viene alle mani col figlio Giuseppe accusato di condurre una vita scostumata (pretendeva infatti di far vivere more uxorio nella famiglia d'origine la sua amante). Bastonato dal padre, Giuseppe, in evidente stato di ubriachezza, risponde con una stilettata uccidendo il genitore ("rendendolo freddo cadavere"). I traffici nel mercato non sono sempre onesti soprattutto a livello igienico. Ma la polizia municipale veglia: Stamani sul mercato di Piazza Madama Cristina vennero sequestrati e distrutti 30 poponi guasti. Benissimo! Il giorno successivo un'altra notizia dello stesso tenore riporta la distruzione di ben 259 poponi immaturi o guasti.. Siamo nel 1884. Le insidie alla morale pubblica non possono mancare alla piazza. Al n. 4 si è insediata una casa di malaffare (proprietario tal Crotta...) che suscita la vibrata protesta di molti inquilini e commercianti disturbati dall'immorale via vai di clienti. La protesta sembra non avere effetto alcuno se l’anno successivo nel 1889 una ventiduenne di mala vita tenta di fuggire gettandosi dalla finestra ma riporta nella caduta gravi lesioni alla schiena. Nell'ultimo decennio il fenomeno della prostituzione sembra allargarsi in maniera preoccupante se nella rubrica "La valigia del Pubblico", un lettore si scaglia contro le veneri da strapazzo che popolano la piazza e che con i loro immondi schiamazzi non lasciano i residenti riposare in pace dalle fatiche giornaliere.  I drammi si susseguono. Nel cortile di un edificio al numero 3, è rinvenuto un feto di 5 mesi in un canaletto di scolo delle acque nere. Piazza madama Cristina dispone di un servizio di vigilanza di guardie civiche attivo nelle ore di mercato: non è infrequente infatti il ricorso ai loro servizi visto il numero non piccolo di episodi di bastonature e accoltellamenti tra i frequentatori del luogo. In una lite all'uscita dalla cantina Campia al n.7 si ebbero nel 1892 ben 6 feriti, tra uomini e donne, fruttivendoli con i banchi sul mercato. Nel 1896 in piazza Madama c'erano i platani: lo si legge nel resoconto dei danni provocati da un uragano con grandine che si abbattè il 24 giugno sulla città: volarono lamiere di zinco della tettoia (finalmente costruita!) e alcuni alberi della piazza furono letteralmente denudati. Il nuovo secolo incalza ma la piazza non sembra cambiare abitudini.... il cuore pulsante di San Salvario ci regalerà ancora per tanti lustri drammi e vivaci quadri di vita popolare.

mercoledì 26 aprile 2017

Alfonso di Piazza Bodoni


Al tramonto


Quando La Marmora morì il giorno prima dell'Epifania del 1878 tra i familiari che seguivano il feretro c'era anche il suo amato cavallo, velato di bruno...... Nella scritta bronzea sul basamento di pietra che sostiene il cavaliere troviamo uno degli epiodi più gloriosi della sua vita militare, la guerra di Crimea che proiettò il novello Regno d'Italia tra le grandi potenze europee, frutto questo dell'acume politico di Cavour. Ricca fu la vicenda umana del più giovane dei quattro fratelli di insigne famiglia biellese, Alfonso. La sua figura, indissocialbile dalla presenza scenica del sottostante equino, appare a certe ore del giorno, soprattutto al tramonto, più simile ad un Buffalo Bill risorgimentale che ad un valoroso soldato del Regio Esercito. I tratti del volto, bruniti dal tempo, non mostrano la bruttezza del maturo Alfonso (a quei tempi 51enne). Il cavallo è rilassato. La zampa sinistra sollevata più che fiera posa di parata, sembra rammentare un' indole dubbiosa del tipo "che fare e dove andare?"
Ma via... lasciamo queste oziose considerazioni  e cerchiamo di cogliere la bellezza di questo monumento equestre calato nell'armonia della piazza circostante. Poche piazze in Torino racchiudono una così squisita geometria di proporzioni. Cavaliere e cavallo volgono sguardo e corpo verso ovest, diametralmente opposti quindi alle proppaggini dell'anfiteatro morenico del Garda dove sorge Custoza, luogo simbolo del declino storico e umano del Generale La Marmora. Casualità del destino, coincidenze ma all'osservatore attento non può sfuggire un chè di stanco ed incerto nella posa dell'uomo di stato e del militare che ha assistito a infinite morti in battaglia, nonchè a quella dell'unico figlio neonato e  da ultimo della moglie Giovanna.In un trafiletto del 7 gennaio 1878 su La Stampa sono descritte le esequie del generale a Firenze: il suo cavallo, velato a bruno, si legge, seguì il feretro....... Lasciando la piazza vien da ultimo da chiedersi se mai alcuno dei giovani bevitori di birra che nelle notti torinesi bighellonano ai piedi dell'Alfonso, si sia mai chiesto chi fosse costui e se davvero avesse sul groppone la responsabiltà dell'esito infelice della terza guerra di indipendenza.

.. o in un pomeriggio d'autunno...


E' raro ma succede che nevichi abbondantemente a Torino. E' questo allora uno dei momenti più adatti per capire la profonda bellezza del monumento di La Marmora. I dissuasori incappucciati del bianco manto diventano palle di cannone disseminate ai piedi del grande condottiero, le orme dei passanti quelle degli scarponi di ignoti soldati che non furono così fortunati come l'Alfonso a venir celebrati per l'eternità. E con la neve, come sempre, la piazza diventa silenziosa, di quel silenzio che ricorda il trascorrere dei decenni, la morte e la spaventosa inutilità di ogni guerra. Il La Marmora fu per molti versi una natura schiva: si narra (G.S. Marchese, 1861, pag.103) che al ritorno dalla Crimea il popolo torinese ebbe ad acclamare i soldati vittoriosi ma ancor di più chi li aveva capitanati... Ma il generale evitò la folla plaudente "rifggendosi in una modesta casa"....



E ora qualche nota urbanistica sulla nascita della statua......

La collocazione della erigenda statua ad Alfonso la Marmora  dopo l’iniziale proposta di piazza Maria Teresa scartata per via della scarsa visibilità causata dalle fronde degli alberi ivi presenti viene stabilita in piazza Bodoni Al centro della piazza per un certo numero di anni uno steccato provvisorio cela la vista del basamento in granito di Baveno su cui poggerà la statua equestre. Raccolti i fondi della sottoscrizione popolare, avuto il sostanzioso contributo del nipote  Tommaso il monumento ad Alfonso La Marmora è inaugurato il 25 ottobre 1891 alla presenza del Re d’Italia.   

Il monumento al Generale Alfonso la Marmora. 
II sindaco riferiva in una delle passate sedute alla Giunta municipale che, con deliberazione 30 novembre 1881, il Consiglio comunale accettava con plauso l'offerta del signor marchese Tommaso La Marmora di assumere a proprio carico l'esecuzione del monumento decretato al generale Alfonso La Marmora, mediante cessione del fondo ricavato dalla pubblica sottoscrizione a tale uopo instituitasi da eseguirsi il monumento in bronzo, con proporzionato piedestallo, secondo il bozzetto studiato dal prof. conte Stanislao Grimaldi e da collocarsi sulla piazza Maria Teresa, in luogo dell'aiuola centrale. Con lettera 20 ottobre corrente, il marchese La Marmora, in seguito all'avviso del conte Grimaldi, autore della statua equestre, e sul riflesso che nella piazza Maria Teresa gli alberi circostanti impedirebbero la vista del monumento, propone che ne sia mutata l'ubicazione, destinandovi la piazza Bodoni. La Giunta, ritenuto che la principale considerazione che indusse a scegliere la piazza Maria Teresa fu l'avere il generale Alfonso La Marmora abitato parecchio tempo in una bella casa fronteggiante la piazza medesima; che però anche in piazza Bodoni l'illustre personaggio ebbe pur dimora, approvò, secondo l'avviso della Commissione d'ornato, il proposto cambio d'ubicazione, salva la sanzione del Consiglio comunale, a cui la proposta verrà sottoposta in una dello prossimo sue sedute. 
La Stampa (4.11.1886) numero 305 pagina 3

Oltre vittoriose battaglie...


 

Buffalo e Alfonso: paragoni


In margine a tutto quanto finora detto c'è da rilevare come la collocazione della statua ebbe un travagliato iter con numerose ed accese sedute in consiglio comunale. L'Autore del monumento sostenne a lungo, dal 1873, che la statua doveva essere collocata o in piazza Castello o nei giardini di Piazza Carlo Felice e a sostegno di questo proposito ebbe a citare l'approvazione di Re Vittorio Emanuele II che, cosa non da poco, contibuiva per due terzi al finanziamento dell'opera....  Ma il progetto di porre Alfonso davanti a Porta Nuova ebbe fiere resistenze in Comune.... Di ordine architettonico: come poteva una statua armonizzarsi con il cosiddetto giardino all'inglese qual'era quello della piazza Carlo Felice? Di ordine logistico: porre Alfonso che guarda il centro cittadino o che, più prosaicamente, osserva la imponente facciata della stazione, col rischio di venirne schiacciato nel senso delle proporzioni naturalmente.....? E poi, osserva un arguto consigliere, cosa ci sta a fare vicino alla statua lo zampillo della fontana? Poco maestoso di certo, anzi irrispettoso. Come sappiamo, dopo molti anni di discusssioni il cavaliere eil fedele cavallo ebbero la loro collocazione più indovinata, senza zampilli, aiuole o imponenti ed imbarazzanti facciate di edificio.

martedì 18 aprile 2017

Cimiteri della campagna vercellese

Per gli amanti dei cimiteri la campagna che si sviluppa attorno a Livorno Ferraris e Trino è fonte di grandi sorprese. Si tratta di cimiteri abbandonati depredati dall'imbecillità umana ma che hanno conservato intatto un loro fascino. Uno dei più citati sul web, anche a sproposito, è quello di Darola posto a metà strada tra la cascina omonima e l'Azienda agricola di Lucedio che dismessi i quarti di nobiltà (ex abbazia, ex Principato...) continua con intelligenza e oculatezza a gestire un luogo denso di grandi vicende storiche. Il cimitero di Darola sopravvive soffocato da una vegetazione aggressiva che lo sta avvolgendo di lustro in lustro. In fondo al quadrato di cinta si trova la cappella segnata più che dal tempo dalla mano di povere menti che lì hanno messo la firma del loro passaggio terreno, con i mezzi che il loro cervello aveva a disposizione: la distruzione e la rapina .... Rimangono miracolosamente intatte ai lati della cappella, sotto il piccolo portico, due lastre funerarie murate. Quella di sinistra evoca la triste vicenda di due gemelle quindicenni decedute nel 1868 nello stesso giorno. A destra viene invece ricordato il padre loro, uomo onesto e ad ognun caro .... prematuramente morto pochi anni dopo, il 28 giugno 1876.
In piccolo ricetto, a destra della cappella, troviamo la sola lapide del cimitero ancora leggibile e in buono stato.
Il luogo, se visitato in una bella giornata di sole, non ha nulla di lugubre o demoniaco. Reca con sè la leggenda secentesca che lo vuole testimone di congressi carnali tra monaci della vicina abbazia di Lucedio e giovani novizie, istigate in ciò dalla possessione demoniaca. Ma le fonti cui fa riferimento la leggenda sono molto incerte (vedi Massimo Centini, Il grande libro dei misteri del Piemonte, Ed. Newton Compton, 2007). E in questi casi sorge sempre il dubbio abbastanza scontato che il demonio sia stato scomodato per coprire umane debolezze carnali di persone dal debole profilo ecclesiale.

Poco dopo la cascina Colombara sulla provinciale 7 prima dell'incrocio col Canale Cavour verso Livorno Ferraris c'è il piccolo cimitero anch'esso abbandonato. Qui l'erba infestante è stata tenuta a bada ed è possibile reperire ancora qualche lapide sia in terra che al muro perimetrale in mattoni. Appena varcato il cancello a destra si scorge l'effige di un'anziana donna vestita di nero dallo sguardo penetrante. Non rimane nessuna indicazione di chi fosse e di quando morì. Le ultime sepolture sembrano datare agli inizi del quinto decennio del '900: in effetti è in quel periodo che si esaurisce lentamente il fenomeno delle mondine e con esso lo sviluppo della vicina comunità della Cascina Colombara. Essa negli anni 70 è ormai disabitata.




Poco distante qualche burlone con un certo piglio di humor nero ha raffigurato una tumulzaione pagana con cenci variopinti.


Poco fuori dalle mura lo sguardo spazia sulla distesa d'acqua di una grande risaia, con in lontananza le mura di una grande edificio che rcorda i Cason veneti del Delta del Po.