lunedì 30 aprile 2012

L'Ospedale Militare Michelin a Torino

Pochi sanno che a Torino durante la Grande Guerra fu creato nella sede degli Stabilimenti Michelin di via Livorno un efficiente Ospedale Militare sotto l'egida della Croce Rossa. Analogamente a Clermont Ferrand era stato creato nel 1914 un grande nosocomio per l'assistenza dei feriti di guerra
Le foto seguenti sono tratte dall'opuscolo pubblicato nel 1917 dalla Michelin sulla storia dell'ospedale militare francese di Clermont.






A Torino l'ospedale chiude in anni successivi a quello di Clermont (1917) come risulta dalle cronache su La Stampa. Sul giornale cittadino è possibile rintracciare 2 estesi articoli sulla struttura e tutta una serie di trafiletti che riportano eventi ricreativi svoltisi a beneficio dei feriti nella sede di via Livorno.

La Stampa 18 Agosto 1915

La Principessa Laetitia inaugura l’Ospedale Michelin

 
Nei suoi grandiosi locali di Via Livorno 55-57 la Società per la fabbricazione dei prodotti Michelin ha ieri inaugurato l'ospedale territoriale per le cure chirurgiche, che essa offre alla Croce Rossa italiana e che sussidierà completamente per tutto il tempo della guerra. L'inaugurazione fu una cerimonia volutamente semplice, ma acquistò importanza per il numero e l'autorità degli intervenuti. La presiedette S.A.I.R. la principessa Laetitia, colla dama d'onore contessa Di Sambuy e il gentiluomo conte Fossati. Vi erano inoltre la contessa Di Rorà, la contessa Balbis, la baronessa Mayor de Planches, le signorine Ramoger, il console di Francia comm. Ramoger, il vice-console cav. Pery, parecchie notabilità della colonia, fra cui il presidente Charle e il signor Schilllng, il console del Belgio cavaliere Blancharda, il comm. Andreis, vice-presidente della Croce Rossa, col conte Del Carretto e il cav. avv. Molinarl, il dott. cav. Abba, capo dell'Ufficio d'igiene, in rappresentanza del sindaco, l'avv. Maccari e il collega Ragazzi per l'Associazione della stampa subalpina. Rappresentavano l'esercito il comandante del Corpo d'Armata di Torino, generale Rogier, e il comandante della Divisione, generale Chiaria. La Camera di commercio era rappresentata dal comm. Bocca. La Società dei prodotti Michelin era rappresentata dal gerente ing. Deaubré. L'ospedale, che la Casa Michelin, già benemerita per le duecentomila lire elargite dalla Agenzia italiana del pneumatici Michelin a favore degli automobilisti sotto le armi e delle loro famiglie, ha fatto preparare nel migliore dei suoi padiglioni. In meno di tre mesi, è un'opera perfetta. Capace di contenere dal cinquanta ai sessanta feriti, dotato di tutte le comodità, di tutti i conforti moderni, arieggiato con speciali apparecchi che vi introducono l'aria filtrata, evitando cosi la necessità di aprire le finestre, munito, unico fra gli ospedali territoriali, di un gabinetto pei raggi X, di cui è direttore il dottor Sura, fornito di una bellissima sala operatoria, d'una sala di preparazione per le operazioni, di una sala di medicazione, di sale ricreatorie e di lettura, di un'elegante farmacia che sarà affidata al dottor Carlo Bolla, adorno di terrazze spaziose, corridoi luminosi, finestre aperte al sole: questo si può veramente chiamare un ospedale modello. Lo dirigono due valorosi chirurghi : i professori Azario e Chéne, assistiti dal dott. Sura per la radiologia, dal dott. Re e da alcuni consulenti speciali. Vi sono addette molte infermiere e un gruppo di suore, di cui è superiora una discendente dei marchesi Spinola. La visita fu lunga o minuziosa e soddisfò pienamente tutti gli intervenuti. La principessa Letitia volle specialmente manifestare il suo compiacimento ai due valenti direttori. Ora l'ospedale è pronto e sembra destinato, col suo aspetto di gaiezza festosa, ad affrettare la guarigione dei feriti che ospiterà. Costoro avranno poi modo di trascorrere l'epoca della convalescenza in una palazzina di corso Regina Margherita, nei locali della ex-clinica Pinna-Pintor, dove sotto gli auspici del Consolato di Francia e per sottoscrizione della colonia francese di Torino è stata istituita la casa di convalescenza dell'ospedale Michelin. In questa stessa settimana saranno trasportati nell'ospedale di via Livorno i primi feriti.


La Stampa 12 Febbraio 1916

Un piccolo ospedale perfetto

 
Non è molto tempo, abbiamo parlato di un grande, vasto ospedale, quello militare principale: in contrapposto diciamo oggi qualcosa di un altro, di un piccolo ospedale, un gioiello, una miniatura: l’ospedale francese Michelin che ci fu consentito visitare colla guida cortese del dottor Chène, uno dei benemeriti sanitari di questo luogo di cura. L'ospedale, che è stato offerto, con atto generoso, dal signor Michelin ai feriti italiani, sorge in una elegante palazzina bianca dalle ampie vetrate, per le quali la luce di questo meraviglioso inverno, che è una primavera, passa libera e chiara, a portare ad ogni letto un sorriso d'azzurro ed una occhiata di sole. La palazzina è in via Livorno, accanto alle officine Michelin; ma il fumo delle officine non la turba, non la contamina. Essa, che una volta era sede agli uffici della Ditta, ora e perfettamente isolata dal resto dello stabilimento, rimane sola, nella sua pace raccolta, nella sua serenità quasi di convento. Entrando nel ridente edificio, che, se non vi fossero i letti dei feriti, non si potrebbe chiamare un luogo di dolore si ha l'impressione di entrare in un elegante albergo di qualche importante stazione climatica, ove dei malati molto ricchi amino lasciarsi curare e farsi operare qui, piuttosto che altrove, in questa stagione piuttosto che ih un'altra. Il proprietario... dell'albergo o — per chiamarlo col suo nome — il deus ex machina dell'ospedale, colui che lo ideò, che lo organizzò, che lo amministra ora con cura paterna, con abnegazione veramente ammirevole, è l'ing. Daubrée, gerente della Società Michelin, che si assunse con simpatico entusiasmo il delicato incarico, ed ora raccoglie, nella riconoscenza illimitata di tutti i ricoverati, il premio alla zelante, ininterrotta opera sua. Inauguratosi ai primi di settembre, quest'ospedale, che venne preparato secondo i più-moderni dettami della chirurgia, sotto l'esperta vigilanza di un autorevole chirurgo della nostra città, il dott. Azario, ha dimostrato subito di possedere, nelle sue modeste proporzioni di ospedale in miniatura, tutte le doti e le prerogative di un modernissimo nosocomio. Ond'è che noi abbiamo potuto ritrovare qui, in piccolo, tutto quanto avevamo ammirato su vasta scala nell'ospedale militare principale. Esso ospita sessanta letti, in belle corsie inondate di luce, ove l'aria corre fresca e pura, ove la pulizia regna sovrana, senza che l'ombra d'un odore cattivo — il tanfo caratteristico dei vecchi ospedali — offenda l'olfatto del visitatore. E' un gioiello: vi sono sale d'operazione perfette, sale di medicazione, sale di preparazione alle operazioni, gabinetti da bagno e per doccia, locali per la disinfezione, sala per gli apparecchi di radioscopìa, una farmacia, una cappella, ove i feriti possono assistere alle l'unzioni religiose, una sala di divertimento, con un piccolo palcoscenico, ove si danno spettacoli, modernissime cucine, uffici, salotti di convegno e in alto una magnifica terrazza, donde si domina il panorama delle Alpi, e dove, nella buona stagione, i feriti già avviati verso la convalescenza avranno modo di godere la brezza tepida e profumata delle belle serate torinesi. All'Ospedale Michelin non manca nulla: esso è dotato d'una delle più ricche e più complete collezioni di ferri chirurgici, e dei migliori sistemi di disinfezione. I pavimenti sono coperti da una speciale sostanza a base di gomma e amianto, che assicura la pulizia, la polvere è aspirata da speciali apparecchi e appositi aspiratori nelle corsie e nei corridoi filtrano l'aria. I feriti, che occupano salvo qualche breve intervallo in cui il loro numero diminuisce, quasi sempre tutti i sessanta letti disponibili, sono fatti segno ad un trattamento squisito. Le suore di San Vincenzo de' Paoli, di cui è superiora suor Irene — al secolo marchesa Spinola, soprannominata dai ricoverati suor Provvidenza, tanto essa sa essere dappertutto, provvedere a tutto, badare a tutto — circondano di cure continue, preveggenti, affettuose, i soldati feriti, lo spirito dei finali, in quell'ambiente quasi di famiglia, si solleva infinitamente e attinge forza per resistere ai dolori fisici che a volte sono strazianti. Una schiera di valorosi specialisti della chirurgia si è assunto il compito di curare, assistere, operare e condurre alla guarigione i feriti: e il compito viene disimpegnato con bravura e con slancio. Dirige il nosocomio il Dott Mario Azario il cui nome è di per sè stesso una garanzia. Tra i feriti che furono qui ricoverati dal principio di settembre ad oggi si presentarono più volte casi complicatissimi, che richiedevano operazioni coraggiose ed i sanitari del Michelin le affrontarono con risultati felici. L'ospedale, il cui impianto è costato circa cinquantamila lire e la cui spesa di manutenzione mensile si calcola sulle ottomila lire, è posto alle dipendenze della Croce Rossa ed è sotto il patronato del console francese. Dall'epoca della sua apertura ad oggi fu visitato da S. A. I. R. la Principessa Laetitia, dalla Regina Elena, da Sua Eminenza il Cardinale Richelmy, da altre nobili dame, da autorevolissimi personaggi. E tutti sempre ebbero ad esprimere il loro vivo compiacimento. Certo, tra le varie manifestazioni di solidarietà latina, che le colonie francesi in Italia hanno dato e danno nell'ora presente, il grazioso Ospedale di via Livorno è una delle più encomiabili e delle più evidenti. Ma la Colonia francese a Torino, per iniziativa del console comm. Ramoger, che è un fervente e sincero amico dell'Italia, che ha voluto per conto suo dar effettuazione ad un altro progetto altamente umanitario: quello d'istituire, a spese della Colonia stessa, una Casa per convalescenti. E cosi sorse, tra un viale ed un giardino, in una pittoresca villetta di corso Regina Margherita, che respira l'aria frizzante della collina ed ascolta il rumore giocondo del Po, quell'asilo di benessere e di pace che è l'ospedale della Colonia francese, ospedale per convalescenti. Tutti i feriti, che siano dichiarati in via di guarigione al Michelin, e che siano bisognosi per la gravità della ferita, di particolari cure, vengono passati nella villa di corso Regina Margherita, che è una specie di paradiso dei convalescenti. Stanzette comode e ariose, a due, tre letti per ciascuna, eleganti, pulite, dotate d'ogni comfort, ospitano i convalescenti, ai quali offrono veramente tra la vita dolorosa dell'ospedale, che è passata, e quella faticosa del campo che li attende ancora, una dolce parentesi di felicità. Sono accaduti casi di molti soldati che, colle sue buone suore che sanno cucinare vivande squisite, coi suoi esperti dottori che sanno l'arte di far guarire, col suo ridente giardino, ove si passeggia e si gioca alle nocete, colle sue sale luminose, ove la malinconia non entra e l'allegrezza impera, hanno sentito un nodo alla gola ed una stretta al cuore. Ed hanno pianto, qualcuno persino è ripartito dicendo: «Arrivederci presto». E non pensava, nell'ingenuo desiderio di ricominciare quella vita piana e riposante, che con una simile esclamazione si augurava: — Iddio non voglia un'altra ferita! L'esterno e l'interno della palazzina sono quanto di più pittoresco si possa desiderare. La villa Piccolino, bianca e civettuola, protetta da una bella cancellata, aperta su un lieto giardino, pare davvero il rifugio di qualche bella misteriosa... Ed è invece la sede di un'alta e bella e pietosa istituzione. C'è in questo ospedale dei convalescenti una minuscola cappella dove un altare è stato costrutto dalle mani stesse dei soldati ricoverati: è un piccolo capolavoro in traforo e stucco. Minuscole candele sono posto sull'altare, in attesa di essere accese quando qualche funzione religiosa si improvvisi nella cappelletta: ma le candele non sono tutte bianche come quelle degli altri altari, sono di tre colori: bianche, rosse e verdi. E fuori, nel corridoio, che dà adito alla cappella, ad ornare un acquasantino, si vedono incrociale e combaciatiti due piccole bandiere: l'italiana e la francese...

Il 29 gennaio del 1918 è pubblicato l'ultimo articolo riguardante la struttura. Si parla di un riuscitissimo concerto con esecuzioni di chitarra, piano, violino, violoncello e canto, nonchè di una bella sonata eseguita da un ferito, tal Prof Spadetti. Dopo questa data su la Stampa non compare più nulla.

sabato 28 aprile 2012

Maurice Quentin Point (1875-1953)


Maurice Raphaël Quentin Point nacque nel 1875 a Saint-Quentin (Aisne). Studiò sotto Fernand Cormon e Raphaël Collin alle Belle Arti di Parigi. Diventò restauratore di quadri e in partricolare di quelli di Maurice Quentin de la Tour (1704-1788) anche lui ritrattista. Si dedicò alle tecniche pastello e a olio come pure alla litografia. Dal 1907 espose al Salone degli Artisti Francesi. Dopo il 1938 aderì alla Defense passive associazione sorta per la protezione della popolazione civile in caso di guerra (istituzione di reti di sorveglianza, costruzione di rifugi sotterranei, formazione della popolazione). La morte avvenne nel 1953

(Ritratto di donna. Collezione privata)


Portrait of Jules Degrave Red Chalk - 46 x 33.4 cm Saint-Quentin, Musée Antoine Lécuyer Photo: Musée Antoine Lécuyer

giovedì 26 aprile 2012

Torino in guerra. I bombardamenti dell'agosto 1943

STAMPA MARTEDÌ' MERCOLEDÌ' 17-18 Agosto 1943


Anche questa volta l'incursione nemica ha preso in modo particolare una delle zone
più popolari della città. L'epicentro del bombardamento si può fissare attorno alla barriera di Nizza dove  parecchi colpi sono caduti nel recinto dell'Ospedale delle Molinette. Bombe di grossissimo calibro hanno devastato i giardini, scavando profonde buche. Un proiettile ha colpito in pieno la clinica di anatomia patologica facendo crollare tutto il padiglione e, particolare assolutamente pietoso, devastando gli impianti annessi alla camera mortuaria. Sei salme che ai trovavano ricoverate nelle celle frigorifere hanno subito l'estremo oltraggio dell'ira nemica. Fortunatamente nessun danno hanno avuto le persone. A questo proposito giova notare che ancora una volta è valsa la perfetta organizzazione con la quale il massimo nostro Istituto ospitaliero ha provveduto alla tutela di coloro che sono affidati alle sue cure. Come avviene ogni sera, ieri i malati che non possono reggersi in piedi, venivano per cura di speciali squadre, barellati fino nel rifugio scavato ad oltre dodici metri sotto terra. Qui le leggere barelle con il loro carico venivano disposte nelle cuccette su tre file sovrapposte ad un lato del rifugio. Non appena alla Direzione dell'Ospedale veniva segnalata l'imminenza dell'allarme si provvedeva a dare la sveglia a tutti i reparti cosicché al primo squillo di sirena la massa dei ricoverati, amorosamente assistita dal personale e dagli stessi sanitari poteva, attraverso le comode scale raggiungere il posto di sicurezza. Le grosse porte di ferro del peso di parecchi quintali venivano chiuse e sprangate, mentre entravano in funzione gli impianti per il condizionamento dell'aria. Nel sicuro rifugio nessuno di là sotto poteva sentire, non diciamo il rombo degli apparecchi, ma neppure il fragore della difesa antiaerea. Soltanto più tardi i ricoverati avevano l'impressione di un qualcosa che tremasse, che si sommuovesse nelle viscere stesse della terra. Era tutto. L'impianto medesimo di illuminazione continuava a funzionare e bastavano poche parole dei dirigenti per rassicurare ognuno. A pochi metri dal rifugio erano piombate, una dopo l'altra, le tre grosse bombe. Assieme a queste, gli aeroplani nemici avevano disseminato numerose marmitte incendiarie. Era al bagliore del fosforo acceso, congiunto a quello dei bengala che ancora stavano a mezz'aria, che le squadre di soccorso uscendo dalle loro garitte, davano un primo sguardo alla situazione. Fortunatamente nei luoghi colpiti non v'era anima viva. Un'altra bomba era scoppiata poco distante, tra il padiglione della clinica malattie mentali e quello dermosifilopatico. Entrambi gli stabili hanno riportato gravissimi danni. Ancora un proiettile cadeva poco lungi dalle Molinette, a ridosso della clinica di maternità. Anche qui per fortuna non si hanno a lamentare danni alle persone ma soltanto agli stabili e agli impianti. Era appena cessato il bombardamento che i dirigenti  dell'ospedale, primo fra tutti il grand'ufficiale Guerriero Ragazzoni, si portavano nella zona colpita e davano le prime istruzioni alle squadre di soccorso. E' stato anche gravemente e nuovamente colpito l'Ospedale Mauriziano UmbertoI, che già duramente aveva sofferto nelle precedenti incursioni ed ora riattivato, aveva ricominciato a funzionare in tutti i suoi servizi e con garanzia pei ricoverati di un solidissimo rifugio a quattordici metri di profondità e capace di qualche centinaio di persone. Stanotte parecchie bombe dirompenti hanno distrutto o semidistrutto infermerie e gallerie sovrastanti al rifugio dove erano raccolti al completo gli infermi assistiti da tutto il personale sanitario ed infermiere. Nelle prime ore del mattino S. Em. il Cardinale Fossati ha visitato l'Istituto recandosi sui luoghi maggiormente offesi e confortando con i malati con amorevoli parole. Percorrendo le zone sinistrate, troviamo che in regione Pozzo Strada una bomba dirompente è caduta in corso Italia davanti al n. 306 proprio sulle rotaie della tranvia di Rivoli. Una bomba di piccolo calibro che ha però interrotto i binari nel punto in cui è scoppiata. Stamane gli operai già stavano riattivando la linea. Sì calcola che nel pomeriggio la tranvia Torino-Rivoli possa nuovamente funzionare. Nella zona tutto attorno sono cadute altre piccole bombe dirompenti che non hanno fatto gravi danni perchè cadute in terreni rimossi. Presso via Fidia, al capolinea di corso Italia, la buca non è molto grossa, nessun danno hanno riportato la gelateria e il negozio di verdura a pochi metri. La bomba era andata infatti a finire in un campo di granoturco rompendo soltanto un muretto. Nessuna vittima attorno. Gli abitanti della zona fanno la coda all'unica fontana che getti acqua. Tutte le tubature dell'acqua potabile della zona sono infatti rotte. In corso Peschiera all'angolo con corso Racconigi due bombe incendiarie hanno colpito la staccionata dell'impresa Gazzera, una ditta che sta costruendo due rifugi nella località. L'operaio di guardia, il magazziniere Gerussi, si è prodigato fino all'arrivo dei Vigili del fuoco cercando di circoscrivere le fiamme. Sempre in corso Peschiera, nel viale davanti al n. 196, una bomba dirompente ha aperto una vastissima buca nel centro del viale stesso, portando la devastazione attorno, colpendo le case, abbattendo i pali della luce e gettando lo scompiglio. Dietro a questa località in via Ferrero 55 la casa già colpita nell'incursione di novembre è stata nuovamente investita da una grossa bomba cascata quasi nello stesso punto. Un nuovo squarcio ha devastato un muro perimetrale dirimpetto a via Frossasco. Il magazzino dove vengono depositati i carretti del vicino mercato rionale è stato investito in pieno dalla furia devastatrice. La casa fronteggiante quella segnata col numero 80, già colpita nell'incursione di novembre era stata completamente riattata, da un mese i muratori avevano ultimato i lavori, ma ora gli spezzoni lanciati dai bombardieri inglesi l’hanno nuovamente sforacchiata. Nessun ferito perchè tutti gli inquilini della casa andavano a rifugiarsi in altri ricoveri vicini. In via Montenegro alla scuola elementare Santorre Santarosa sono cadute due bombe una nella strada e l'altra nel cortile dalla parte di via Chiomonte. Anche la scuola di avviamento G. Plana è stata raggiunta da spezzoni incendiari. Per fortuna in via Chiomonte, nel cortile della scuola Santorre Santarosa, all'angolo opposto ove è caduta la bomba, ha sede un raggruppamento dell'Unpa. Due squadre di primo intervento sono subito accorse a portare la loro valida opera nelle due scuole colpite. Anche la chiesa di San Bernardino è stata gravemente colpita e danneggiata. Nella chiesa, tenuta dai Padri Francescani, sono precipitate sette bombe incendiarie. Una è caduta nel giardino senza arrecare danni, ma le altre, purtroppo, hanno portato la distruzione nei punti ove sono scoppiate. Molte, dopo dì avere perforato l'intero edificio, sono finite nel chiostro. Nella chiesa lo spostamento d'aria ha rovesciato i candelabri, i paramenti e tutti gli arredamenti dell'altare. L'Altissimo è stato portato via mentre ancora divampava l'incendio: anche se esso fosse rimasto nel tabernacolo, non avrebbe però subito danni, essendo questo costruito in maniera di dare ogni sicurezza anche in caso di incendio o di crollo. Ai piani superiori una bomba incendiaria ha colpito un magazzeno ove i Padri Francescani tenevano tutta la cera, i paramenti sacri, oggetti in bronzo. Nella notte stessa i frati hanno cercato di salvare il salvabile, riuscendo in gran parte ad evitare che le fiamme raggiungessero molti ricchissimi arredamenti. Il danno più grave è avvenuto nel fondo della chiesa dove l'organo, a 1500 canne, è andato completamente distrutto dalle fiamme. Anche i due motori sono rimasti completamente carbonizzati. Delle canne più nessuna traccia: liquefatte. Padre Anacleto, l'organista della chiesa, ci mostra con aria desolata ove egli soleva sedersi davanti atto strumento: non vi è che un vasto buco nero dove le fiamme stamane, alle 11, continuavano ancora a crepitare. Il parroco della chiesa, padre Candido Viretti, si aggirava nel chiostro, seguito dai suoi fraticelli contemplando la impressionante scena. In corso Racconigi 137, «no spezzone ha bucato il tetto di una casa e le fiamme sono divampate altissime. Gli inquilini sono saliti fino ai piani superiori a spegnere l'incendio. Erano in otto. In breve riuscivano a domare le fiamme che erano soltanto all'inizio della loro opera. Mentre scendevano, un più grave accidente li attendeva: le scale crollavano a causa dello spostamento di aria prodotto da una bomba caduta dall'altra parte del corso. Essi rimanevano così bloccati al primo piano e vi restavano per tutta la notte. Stamane alle 8 i pompieri li traevano in salvo con scale di fortuna. Il punto dove maggiormente è infuriata la devastazione è quello compreso fra corso Orbassano, corso Duca Abruzzi, corso Marsiglia, corso Mediterraneo. In questa zona ed in quelle adiacenti, sono cadute venticinque bombe dirompenti di grosso calibro che hanno arrecato gravissimi danni. I viali, le strade, le case, sembrano spazzate da un immane tifone che ha sconvolto la fisionomia del luogo. La gente vi si aggira cercando nelle macerie gli oggetti ancora salvabili. Alcune case, lievemente colpite nelle incursioni precedenti sono state colpite la notte scorsa. Gli edifici di corso Orbassano 69, 67, 65, 63 sono gravemente lesionati; quella contrassegnata col 63 e col 61, sono completamente rase al suolo. Gravemente colpite sono pure le case 59 e 57. Tutti i rifugi sono crollati, ma per fortuna gli abitanti della zona non usufruivano più già da un pezzo di questi ricoveri. In via Cassini all'angolo di via Rivolta, una bomba è caduta nel cortile proprio sul punto ove è ubicato il rifugio, squarciandolo. Anche qui nessuna vittima perchè gli inquilini si erano ricoverati altrove. In corso Parigi 50, una bomba dirompente di grosso calibro è caduta sul tetto, sfondandolo e svuotando l'edificio che contava cinque piani. La violenza dello scoppio è stata tale che nelle case prospicienti i muri sono stati letteralmente ridotti dagli spezzoni come una schiumarola. In via Nizza, all'altezza di via Calvo, una bomba, caduta nel mezzo della strada, ha prodotto una grossa buca, sbalzando tutt'attorno pietre e terriccio. Già alcuni uomini, armati di vanghe, provvedono a riempirla e a sgomberare la via. Poco distante un grave disastro si lamenta in via Grossi dove gli aviatori anglosassoni hanno sganciato micidiali ordign1 provocando gravi danni a case d'abitazione. Anche in corso Stupinigi, particolarmente all'angolo con corso Bramante, è passato l'uragano di ferro e di fuoco. La palazzina contrassegnata col n. 2 c stata investita dal terribile soffio: i muri sono mitragliati di schegge e porte e finestre e tegole sono volate sulla strada. In corso Stupinigi, all'altezza del n. 70 e 76, un albero di colossali dimensioni è caduto, ostruendo, in quel punto, il traffico. Sempre proseguendo sul medesimo corso, si assiste al miserando spettacolo delle case popolari fatte segno alla durissima offesa nemica. Una bomba ha colpito il marciapiede, ha sfondato il muro perimetrale: dallo squarcio si può spingere lo sguardo fin nelle cantine che fortunatamente non erano adibite a rifugio. In via Arquata 5, sempre nelle case popolari, gli inquilini e i passanti che avevano cercato riparo in quel ricovero, hanno trascorso drammatici momenti: un ordigno incendiario raggiungeva delle costruzioni di legname poste nel rifugio: le fiamme divampavano subito altissime e i poveretti dovevano uscire per non essere investiti dal fumo. Nella Latteria Moderna, che qià l'ultima volta era rimasta gravemente colpita, sono anche ieri notte cadute alcune bombe. Una giace ancora inesplosa nel cortile; l'altra, centrando in pieno l'annessa casa degli operai che guarda via Solero, ha infilato la tromba delle scale e ha provocato un'orrenda devastazione. In via Farina una bomba, non scoppiata subito, è esplosa più tardi, arrecando ingentissimi danni alla villetta presso la quale era stata sganciata. Un altro ordigno inesploso giace in via Spallanzani e anche qui il passaggio è impedito da un cordone di truppa. Pure in corso San Maurizio il nemico non ha risparmiato i suoi mezzi d'offesa: ordigni incendiari hanno colpito la casa d'abitazione annessa alla scuola Pierino Delpiano e il fuoco ha ben pretto assunto proporzioni notevolissime e solo dopo lunga ed aspra lotta ha potuto essere domato. Lo Stadio Comunale, ex Stadio Mussolini, è stato colpito da alcune bombe dirompenti cadute sulla tribuna del campo grande e nell'interno di quello atletico piccolo. I danni sono gravissimi. Altre bombe sono cadute nei pressi provocando larghe buche e rottura di condutture dell'acqua potabile. Altri gravissimi danni, sempre alle case di abitazione civile, sono stati provocati dalle bombe dirompenti ed incendiarie nella zona compresa fra via Rosmini, via Madama Cristina e via Argentero. Altre numerose bombe sono inesplose nel rione e poco distante. Bombe inesplose sono negli stabili di via Busca 7, via Varazze 8, via Canova 5, via Genova 39 e via Nizza 155. Una bomba di forte potenziale ha pure danneggiato la chiesa del Sacro Cuore di Gesù in via Nizza 54. Sono state infrante vetrate istoriate e tutto nell'interno è sconvolto. Anche nel Borgo Medioevale, già colpito in precedenti incursioni, una incendiaria ha distrutto il S.Giorgio mentre bombe dirompenti si sono abbattute poco lontano, sulla riva del Po. La Scuola Vittorino da Feltre è stata gravemente lesionata da un incendio che ha distrutto completamente i due piani superiori, mentre quelle municipali di via Fioccardo sono state lievemente lesionate. Altre dirompenti sono cadute in via Valeggio 9, via Caboto 36 e 38. nel vicolo Duca degli Abruzzi, in via S. Secondo 64 e 68, in corso N. Buonservigi 15 e 50, in via Amerigo Vespucci 42. Durante l'allarme, l'Eccellenza Comandante la Difesa territoriale si è recato successivamente sui luoghi colpiti dall'offesa nemica, per sollecitare e intensificare le opere di soccorso. Anche S. E. il Prefetto, accompagnato dal suo capo di Gabinetto dott. Savartano, si è recato, prima del cessato allarme, sui luoghi sinistrati.

domenica 22 aprile 2012

Via Livorno a Torino

Nei pressi della Spina 3 sull'area delle Ferriere Piemontesi demolite nel 2005 i lavori di arredo urbano procedono lentamente ma lasciano già intravedere una nuova e piacevole prospettiva della città.



E poi c'è via Livorno...


com'era

Nella foto, in basso a destra, c'è il Baraccotto. Citiamo da MuseoTorino:

Il chiosco di via Livorno angolo corso Mortara sorge a inizio Novecento “accanto alla demolenda cinta daziaria” come struttura provvisoria per la somministrazione di cibi e bevande; situato accanto al ponte sulla Dora di via Livorno, in posizione centrale rispetto alle grandi fabbriche che si sviluppano sull’area nel corso del XX secolo, rimane attivo fino ai primi anni 2000, benché sempre come struttura precaria, superando indenne diverse ordinanze di demolizione. Il baraccotto, contraddistinto dalle caratteristiche facciate in assi di legno, costituisce per decenni uno spazio di ritrovo e di aggregazione per i lavoratori delle fabbriche circostanti; qui, tra i turni di lavoro, si beve il “grigioverde”, tradizionale e ormai desueto mix di grappa e sciroppo alla menta; soprattutto, qui si incontrano i militanti e i sindacalisti, e si leggono l’«Avanti» e l’«Unità». Punto di incontro, discussione e partecipazione, il baraccotto costituisce un luogo di riferimento per i movimenti operai, che in questo territorio vivono una storia particolarmente intensa. Da qui partono i cortei di contestazione operaia in difesa dei diritti sindacali e salariali e si organizza, durante il secondo conflitto mondiale, la resistenza contro l’occupazione nazi-fascista, nell’ambito della quale le Ferriere giocano un ruolo di primo piano a livello cittadino. Il chiosco sopravvive per qualche anno alla dismissione degli stabilimenti industriali: fino al 2000 si trova traccia dei rinnovi della concessione precaria. Rimasto in stato di abbandono dopo la chiusura dell’attività, parzialmente crollato nell’agosto 2007, è stato smantellato due anni dopo per lasciare spazio all’innesto di una delle due estremità del nuovo ponte sulla Dora tra via Orvieto e via Livorno.

Il luogo conserva ancora tutti i segni di una realtà industriale ormai non più visibile. L'atmosfera che aleggia sui grandi blocchi di cemento che ancora a tratti coprono la Dora è quella ricordata da Messori:

Della mia ultima visita a Torino ho il ricordo indelebile di un giro in via Livorno; mi rammaricai molto di essere andato a vedere che fine avesse fatto quel pezzo di città. Ho vissuto parte della mia infanzia e adolescenza in via Sobrero, traversa che da corso Regina Margherita corre in salita verso via San Donato. Dalla sommità, guardando oltre corso Umbria, si spalancava proprio via Livorno, con la sua selva di ciminiere che eruttavano giorno e notte un fumo rossastro. Camminare per via Livorno era al contempo fascinoso e inquietante: Torino come città da piano quinquennale sovietico o da  Manchester dell’Ottocento, non si incontrava nessuno, non c’erano abitazioni, i marciapiedi, sui quali le suole lasciavano l’impronta nella polvere rossa delle ciminiere, costeggiavano lunghi muri oltre i quali si trovavano le gigantesche ferriere della Fiat e i grandi impianti della Michelin. Da dietro quelle grigie muraglie giungevano non voci umane ma rumori inquietanti, fischi meccanici, colpi di sirena e, soprattutto, il rumore continuo dello sferragliare di treni merci.



La copertura della Dora per permettere l'ampliamento delle strutture della FIAT Ferriere Piemontesi avvenne con blocchi di cemento che potevano sopportare un peso di 15 tonnellate per metro quadrato.

Le sorprese sono ad ogni passo, come quella di cogliere in un angolo, lontanissima, la basilica di Superga,


un tempo oscurata dai grandi capannoni

foto Filippo Gallino 2010 © Città d Torino

sabato 21 aprile 2012

NO, no e poi ancora no....... Il sottopasso di Corso Bramante a Torino


Possono essere dieci, cento o migliaia. Gli specialisti del No. Si tratta di persone che si coagulano in gruppi di resistenza a opere, proposte, progetti nei più svariati campi ma specialmente in quel settore che riguarda l' urbanistica in generale. Per questi non esiste iniziativa che sia indegna di una consolidata critica distruttiva che tende invariabilmente al mantenimento dell'esistente. Costruire un sottopasso? No, tanto è inutile. Un grattacielo, no tanto è costoso e inutile. Una ferrovia ad alta velocità? No, tanto... ma qui è meglio lasciar perdere perchè il disorso porterebbe lontano. Limitiamoci alle piccole opere necessarie ad una città per rinnovarsi e crescere. Quando si parlò di costruire il sottopasso che avrebbe evitato gli ingorghi dell'incrocio Corso Massimo Corso Bramante, era il 1991, iniziarono le accorate proteste dei professionisti del NO con relativa raccolta firme. Comitati, appelli, grida di allarme e tutto il folclore dello sdegno vibrante. Venne creato il Comitato spontaneo di San Salvario. Sulla Stampa si leggevano dichiarazioni come "Si vuole sconvolgere la vita di un quartiere...."  e compariva pure il calcolo che circa 12mila elettori erano "interessati" dal trincerone con l'evidente intento di far rizzare le antenne del politico di turno sempre pronto a cavalcare una qualsiasi protesta pur di comparire sulla scena della vita cittadina. Ogni parere è degno di attenzione. Ma spesso i pareri sono appunto poco più che chiacchiere che trovano amplificazione a seconda dell'appeal economico o politico di chi li propone. Anche i commercianti che in Torino hanno sempre avuto un fiuto eccezionale per le brutte figure (pedonalizzazioni sempre contestate, vedi via Garibaldi, via Lagrange, via Carlo Alberto) misero la loro parola per opporsi al sottopasso. Alla fine il sottopasso vide la luce, erano i primi mesi del 1995.... Adesso l'opera viene utilizzata giornalmente da migliaia di persone e le proteste si verificano solo in caso di chiusura temporanea per le necessarie manutenzioni.... E i paladini del NO? Nessun problema, ci saranno altre battaglie e altri cartelli su cui incollare la bella parolina rassicurante: NO. NO e basta  

martedì 17 aprile 2012

Quando si tratta della sanità della razza.... Le origini dell'Ospedale Sant'Anna di Torino

Da  LA STAMPA - 2 Giugno 1933 - Anno XI

Una spesa di dodici milioni. Cinque edifici. 350 letti

Alcuni giorni or sono S. E. il Prefetto Ricci, come abbiamo detto, si è recato a visitare la. vecchia sede della Maternità, sita, come è noto, in via Ospedale. Da molti anni si sentiva la necessità di costruire un nuovo edificio più dell' attuale attrezzato per accogliere le partorienti e prestare loro le cure del caso. Il nostro giornale fin da due anni addietro aveva iniziata una campagna che oggi dà i frutti sperati. Dopo un'accurata visita a tutti i locali ed a tutti gli impianti, S. E. Umberto Ricci che con intelligente e costante cura gli interessi di Torino e della Provincia, resosi conto delle insufficienze e delle manchevolezze dell'attuale Maternità, ha dato la. sua approvazione al progetto che il benemerito presidente dell'Opera, Avv. Francesco Carrara, aveva fatto preparare dall'ingegnere arch. Giovanni Chevalley. Possiamo pertanto annunciare alla cittadinanza che entro il mese in corso i lavori per la costruzioni della nuova sede saranno iniziati. Può ora essere interessante seguire a ritroso nel tempo le vicende dell'importante Istituto che oggi, per merito del Governo fascista, sta per avere una nuova e degna sede. Nel 1800 l'antico convento annesso alla bella chiesa di San Michele ospitava l'Opera Pia per la Maternità. Da allora l'Istituto si è notevolmente sviluppato, tutti i locali  disponibili sono stati occupati, nell'interno del cortile sono stati edificati nuovi padiglioni; via via tutta la disponibilità dell'area è stata sfruttata, sicché sempre più diventava sensibile la necessità di rinnovare la sede, attrezzandola modernamente e dotandola di tutti gli impianti tecnici e sanitari indispensabili per il buon funzionamento della cospicua sezione ospedaliera e della clinica universitaria ostetrico-ginecologica ad essa annessa. La nuova sede dell'Opera Pia Maternità sorgerà in corso Spezia angolo Via Ventimiglia e via Bormida su di un’area di 22 mila metri quadrati messa a disposizione dal Municipio, unitamente ad un milione e mezzo quale compenso per la cessione dell'attuale sede. Data l'ubicazione fronteggiante larghi e vie con la prospettiva del Po e della collina, gli edifici che sorgeranno saranno largamente soleggiati e ventilati. Il progetto, come appare dalla cartina che pubblichiamo, consta di cinque fabbricati. L'edificio riservato alla Maternità sarà all'angolo di corso Spezia e di via Ventimiglia. Alto tre piani fuori terra, sarà costruito con decoro ma con semplicità di modo che l’architettura sia perfettamente aderente alle necessità dell'opera, con impianti modernissimi e tecnicamente perfetti. In un ampio padiglione, all'angolo di corso Ventimiglia e di via Bormida., sarà ospitata la Clinica Ostetrico-Ginecologica, mentre in i un edificio situato al centro dell'area saranno allogati i servizi generali e le abitazioni delle suore. Vi sarà pure una cappella e, appartato in un angolo dell'area, circondato da verdeggianti giardini, sorgerà l'Asilo materno. Tra le molte particolarità che faranno della Maternità di Torino una delle più moderne e meglio attrezzate d'Italia, questa di ospitare tra i suoi padiglioni pure l'Asilo Materno è una delle più nobili e commoventi conquiste dell'umana solidarietà e dell'assistenza sociale. Quivi le ragazze madri saranno ospitate dal quinto mese di gravidanza ad oltre quattro mesi dopo la nascita del bimbo, con quali grandi vantaggi materiali e spirituali è facile intendere. Attualmente la Maternità è capace dì 174 letti poco ben collocati; la nuova sede invece sarà ricca di ben 350 letti modernamente ed igienicamente sistemati. L'opera, nel suo complesso, costerà dodici milioni. I lavori che, come abbiamo detto saranno iniziati entro il mese per la costruzione del primo padiglione, saranno compiuti in meno di 2 anni. L’opera nel suo complesso è bella ed è in tutto degna di Torino fascista e dimostrerà che la nostra città è sempre vigile quando si tratta della sanità della razza e sempre pronta a seguire gli ordini del Duce


venerdì 13 aprile 2012

Fabbriche scomparse: la Chiantelassa di corso Ferrucci 100


Nel 1955

L’edificio situato all’angolo tra via Pier Carlo Boggio e corso Ferrucci nacque nei primi anni del 900 e precisamente nel 1913 per opera dei Fratelli Borgo, costruttori di motociclette. L’azienda si era installata a ridosso dell’allora Strada di Circonvallazione che delimitava la cinta daziaria della città.


Nel 1926 la fabbrica fu rilevata dal Commendator Attilio Chiantelassa, classe 1887 nato a Buenos Aires ed emigrato  in Italia ad inizio anni 20. Il suo ruolo di imprenditore a capo di una florida azienda gli poneva l'obbligo di aderire, almeno formalmente, al Partito nazionale fascista come troviamo nei registri dell'Archio di Stato torinese.






                                                            Interno della fabbrica anni 60



La foto qui sopra è stata scattata nel 1955. A destra si vede il lato intonacato bianco del complesso condominiale dei numeri 92, 94 e 96 allora in costruzione. Il cancello in ferro era il vero e proprio passo carraio da cui entravano gli automezzi per il carico/scarico delle merci. Le maestranze entravano invece dal portone in legno sulla sinistra. Li, nell'androne, era situata la bollatrice: si trattava più che di un rilevatore di presenza, di un segnalatore con campanello. L'operaio che in uscita, abbassando la leva, faceva suonare l'allarme sonoro, era sottoposto da parte del custode ad una sommaria perquisizione. Il tutto era finalizzato alla prevenzione dei furti di materiale. 
Nel 1955 Chiantelassa, il "Commendatore", come era chiamato dai suoi operai, aveva acquisito dall’americana Gilbarco la licenza di produzione in esclusiva sul territorio italiano di pompe di benzina, attività che continuò fino a metà degli anni 70. La fabbrica comprendeva una fonderia, grandi locali adibiti all'assemblaggio delle varie parti dei distributori di benzina, alla verniciatura e allo stoccaggio oltre che alcuni uffici amministrativi posti al primo piano della palazzina sopra il passo carraio. Negli anni dopo il 1970 la produzione fu ridotta e venne decentrata in provincia a Cafasse sotto il marchio di ELMECA, più conosciuta per la sua concomitante produzione di motocicli da competizione, settore cui il figlio del Commendatore Attilio, Piero era molto interessato. Nel 1982 su La Stampa compare un articolo in cui si legge che si va verso una gestione completamente automatica delle pompe di benzina: leader nel campo sempre l'Elmeca. Intanto l’edificio di corso Ferrucci si avvia verso la fine. Ceduto negli anni '80 ad un'azienda di leasing, fu ristrutturato e risistemato negli spazi interni. Da ultimo, è storia recente, tutta la struttura venne demolita per far posto ad un condominio in stile “eclettico” che cancella la piccola elegante palazzina di inizio '800.

come sarà...

martedì 10 aprile 2012

Il mistero della Revalenta, pozione miracolosa di fine '800......

Tratto da: https://www.perugiatoday.it/rubriche/correva-l-anno-di-marco-saioni-farmacia.html


LA STAMPA
(15.11.1870)


LA REVALENTA ARABICA DU BARRY DI LONDRA
Guarisce radicalmente le cattive digestioni (dispepsie, gastriti), neuralgie, 
stitichezza abituale, emorroidi, glandole, ventosità, palpitazione, diarrea, 
gonfiezza, capogiro, ronzio d'orecchi, acidità, pituita, emicrania, nausee e 
vomiti dopo pasto ed in tempo di gravidanza; dolori, crudezze, granchi, spasimi 
ed infiammazioni di stomaco, dei visceri; ogni disordine del fegato, nervi, 
membrane mucose e bile; insonnia, tosse, oppressione, asma, catarro, bronchite, 
tisi (consunzione), pneumonia, eruzioni, malinconia, deperimento, diabete, 
reumatismo, gotta, febbre, isteria, vizio e povertà del sangue, idropisia, 
sterilità, flusso bianco, i pallidi colori, mancanza di freschezza ed energia. 
Essa è pure il corroborante per i fanciulli deboli e per le persone di ogni età, 
fermando buoni muscoli e sodezza di carni. 
 
Economizza 50 volte il suo prezzo in altri rimedi.
72000 GUARIGIONI RIBELLI A TUTTE LE MEDICINE
 
La scatola del peso di un l/4 DI CHILO  L. 2,50, ½ chilo L. 4,50; 1 chilo L.8, 
2 chili e ½ 17 lire, 6 chili L.36, 12 chili L.65
 
La REVALENTA AL CIOCCOLATTE
(Brevettata da S. Maestà la Regina d'Inghilterra), dà l'appetito, la digestione 
con buon sonno, forza dei nervi, dei polmoni, del sistema muscoloso; alimento 
squisito, nutritivo tre volte più che la carne, fortifica lo stomaco, il petto, 
i nervi e le carni. In polvere per 12 tazze  fr. 2,50; id. per 2-4 tazze fr. 4,50;
id. per 48 tazza fr. 8; id. per 120 tazze fr. 17 50; in tavolette per 12 tazze
fr 2,50; id. per 24 tazze fr. 4,50; id. per 48 tazze fr. 8. 
 
BARRY DU BARRY & COMP, N°2, via Oporto, e N°34, via Provvidenza, Torino, 
ed in tutte le principali farmacie e drogherie del Regno
 
La revalenta era in realtà la storpiatura del nome botanico dell'Ervum Lens ossia 
della comune lenticchia.... Il suo magnificato valore curativo era nè più nè meno 
efficace quanto quello di un piatto di piselli. La sostanza viene citata nell'ultimo 
capitolo di Madame Bovary quando parlando di Monsieur Homais, il farmacista, si dice 
"Fu il primo a far venire nela Senna inferiore la coca e la revalentia"
 


domenica 8 aprile 2012

Prigionieri di guerra. Il Campo di Milowitz

Il Lager boemo di Milowitz ospitò almeno ventimila prigionieri di diverse nazionalità, tra cui molti  italiani: da un documento del 10 gennaio 1918 risulta che erano presenti ben 15.363 prigionieri italiani. Era un immensa distesa di baracche nere prive di luce e riscaldamento. In inverno le temperature scendevano sempre abbondantemente sotto lo zero. Le condizioni di vita all'interno del campo diventarono ben presto terribili. Non esisteva solidarietà tra i prigionieri. I furti erano all’ordine del giorno. I lavori cui erano costretti i prigionieri erano pesanti come la raccolta di legna sepolta sotto terra ghiacciata. Le cause di morte furono polmonite, enterite, tubercolosi e soprattutto edema, termine generico per indicare lo stato estremo della denutrizione. Alle scarse scorte alimentari somministrate dagli austro/ungarici ai prigionieri quasi mai si aggiungevano i viveri che per accordi internazionali avrebbero dovuto giungere dall’Italia. Nei primi mesi del 1918 il tasso di mortalità fu così alto da provocare un interpellanza alla Camera austriaca che portò alla sostituzione del direttore dell’ospedale del campo.
L'alto tasso di mortalità dei prigionieri italiani, nove volte superiore a quello dei prigionieri austroungarici in Italia, è da attribuire in primo luogo alla decisione del governo italiano di non inviare loro cibarie e altri generi di prima necessità. Per Francia e Inghilterra l'invio di tali merci ai soldati detenuti nei campi di prigionia austro tedeschi era divenuto normale pratica dalla fine del 1914, quando gli Imperi Centrali, in risposta al blocco economico imposto dalla Triplice Intesa, avevano annunciato che avrebbero declinato qualsiasi responsabilità riguardo il mantenimento dei prigionieri di guerra. Il governo italiano trattò i prigionieri di guerra italiani come traditori e codardi. Alla Croce Rossa fu consentito di inviare pacchi con generi di prima necessità solamente agli ufficiali. Gli altri prigionieri, la stragrande maggioranza, dovettero fare affidamento sui pacchi che ricevevano dalle rispettive famiglie. Questo sostegno, tuttavia, si rivelò del tutto insufficiente: sia a causa della povertà che imperversava sul fronte interno italiano sia per il disinteresse del nostro governo che in nessun modo si adoperò per facilitare questi invii. I disastrosi effetti della politica di Roma nei confronti dei soldati italiani in cattività divennero particolarmente evidenti dopo la rovinosa sconfitta di Caporetto, quando 300.000 prigionieri di guerra affollarono i campi in Austria e in Germania.

modificato da http://www.picocavalieri.org/pubblicazioni_altre/Strage_di_Milovice.pdf


Le tre cartoline postali del Prigioniero di Guerra Luigi Cevrero sembrano contraddire le reali condizioni di vita degli internati nel Campo di Milowitz. Non devono però ingannare frasi come "Sto bene..." o il tono discorsivo e rassicurante delle missive. La censura, soprattutto di parte italiana, era sempre attentissima ad evitare che filtrassero notizie di disagio o protesta da parte di persone come i Prigionieri di Guerra che per principio erano sempre sospettati di essere dei disertori



All’Ill.ma Sig.na Cevrero Maria Insegnante Chianoc.
Testo: 24.7.1918 Carissimi Ricevo ora la vostra cartolina in data 12.4. Denari non ne ho ancora ricevuto, perciò non speditene più, abonatemi anche alla croce rossa di Novara, mandatemi anche sigari toscani, nei due primi pacchi ne metete 25 per ciascuno ben nell’interno, riso farina semola cacio lardo, filo sapone sale Tanti saluti e baci


All’Ill.ma Sig.na Cevrero Maria Insegnante Chianoc.
Testo: 1.8.1918. Carissimi Denari non ne ho ricevuti nessuni, perciò non speditene più,  nei due primi pacchi meteteci 25 sigari ben nell’interno e in modo che non si guastino è più conveniente, riso, lardo farina di frumento e semola, cacio, cacio, cacio, salame, sapone latte latte, latte condensato, ciocolato ne ricevono quasi tutti spedito dai comitati stessi, perché ne ho ricervuto 5 di pane, 3 misti, abonatemi anche alla croce rossa di Novara. Sto bene spero di voialtri tutti, saluti aff.

Esiste un paese...

Esiste un paese di fantasia in cui per diventare medico specialista si impiegano circa 11 anni. Per arrivare a questa agognata meta bisogna seguire anni di lezioni e superare molti esami. Viene poi il momento in cui alla teoria dovrebbe seguire la pratica il che, se la specialità è chirurgica, significa conoscere a menadito l'anatomia e sapere come usare i taglienti (bisturi e forbici) e gli aghi di sutura, oltre a molte altre cose natualmente. Tutto questo patrimonio di conoscenze, per legge, deve essere dispensato da una figura professionale ben precisa: l'Universitario, un medico che ha scelto la carriera universitaria e che ha come compito preminente l'insegnamento e la formazione. Se vogliamo quindi vedere questa figura nel suo habitat particolare potremmo pensare ad un grande ospedale monospecialistico di una grande città (sempre rigorosamente di fantasia). In genere il nostro è arrivato ad occupare una posizione apicale all'interno del suddetto ospedale. Ma nel grande nosocomio ci sono anche altri medici, gli ospedalieri, per esempio. E allora come riconoscere l'Universitario? Lo riconosci facilmente, perchè è seguito costantemente da uno o più giovani specializzandi. Giovani si fa per dire dato che quando si parla di studi in campo medico, la stortura di un programma di studi dissennato, porta a essere ad inizio carriera alla bell'età di circa 30 anni! Gli specializzandi seguono dunque pazientemente il loro Tutor per racimolare qualche briciola di insegnamento. Qualcuno in virtù di pazienza, sopportazione e fortuna ce la fa ad imparare seppur faticosamente il mestiere. Se queste virtù siano da considerare merito allora tutti imparano per merito. Ma forse il merito è un'altra cosa.... Il giovane viene quasi sempre adoperato per quelle mansioni che sono ritenute noiose o indegne di una mente impegnata in ben più eccelse occupazioni. E quindi giù a compilare le dimissioni dei pazienti (che in anni recenti equivale ad assegnare un "valore" tramite numeri, i cosiddetti DRG, alle prestazioni sanitarie. Questi DRG, inseriti in programmi software appositi, sono ciò che fa guadagnare l'Azienda ospedaliera e l'errore o la sottostima costano assai. Ma di ciò l'universitario medio poco si cura, sapendo a mala pena accendere e spegnere un computer). Lo specializzando dunque, se è scrupoloso, fa del suo meglio per svolgere questo delicato lavoro ma di sicuro non ha le motivazioni (economiche abbiam visto) di chi per l'azienda invece lavora a tutto titolo. Così spesso i giovani che dovrebbero imparare a curare, ad operare in sala operatoria, a gestire dall'inizio alla fine un paziente si trovano a compiere un lavoro routinario per molte ore durante i turni di servizio. Quali sono dunque le mansioni dell'universitario? La loro "mission" (termine adorato da molti di loro) sarebbe quella di insegnare, in secondo luogo di produrre cultura attraverso ricerche nei rispettivi campi di applicazione. La prima parte della mission è quella che bene o male, anche se svogliatamente viene portata a termine. Insegnamento molto spesso di pura teoria attraverso le lezioni di specialità. Se scendiamo poi nel campo della pratica (nella fattispecie pratica operatoria visto che si parla di branca specialistica ad indirizzo chirurgico) le cose si fanno più complicate. Insegnare a maneggiare un bisturi ma soprattutto a capire quando muoverlo (tutto ciò che segue alla diagnosi e riguarda l'intervento) prende tempo. Bisogna avere anche pazienza. Tempo e pazienza. Doti rare e preziose che l'universitario spesso non possiede. Poi in secondo luogo c'è la questione della produzione scientifica che ogni Universitario dovrebbe possedere per dimostrare la sua capacità e la sua preparazione nel campo. Tutti sanno che questo si ottiene tramite dei lavori scientifici pubblicati su riviste del settore. Esiste una classifica di queste riviste che valutano tramite l'Impact factor il valore della rivista stessa. In cima alle classifiche ci sono quasi esclusivamente riviste anglosassoni, le migliori e le più difficili da raggiungere. Le riviste italiane sono giù, molto giù. Questo perchè in genere qualsiasi cosa venga inviata ad una rivista nostrana viene accettato senza filtri nè valutazioni. Da cui montagne di articoli spazzatura. Orbene, se uno si prende la pena di andare a verificare quanto nella sua carriera abbia prodotto un Univeristario medio (sempre di media si parla) del nostro grande ospedale di fantasia, ci accorgiamo che spesso non possiede neanche un lavoro, dico uno, su di una rivista fra le prime 10 al mondo. In compenso avrà una pletora di partecipazione a Congressi, relazioni o pubblicazioni su riviste nazionali. Questo fatto è dovuto ad un semplice motivo. Dall'assunzione in poi nessuno chiederà mai ad un Universitario di  dimostrare quanto vale e quanto produce. Nessuno lo caccerà mai via se non crea cultura o non ottempera alla mission formativa. Questo impoverisce le nostre strutture di insegnamento. I mediocri vanno avanti spesso perchè sono quelli geneticamente programmati per non soccombere alle lotte fratricide che avvengono all'interno degli Istituti.... e la mediocrità è un gene autosomico dominante, purtroppo.
Esistono comunque anche in ambiente universitario persone dabbene, che producono e insegnano formando le nuove generazioni. Ma nel nostro grande ed immaginario ospedale monospecialistico queste persone  sono davvero sconsolatamente pochine, pochine.
Se frughiamo, infine, negli angoli dimenticati della storia troveremo una lettera di un illustre primario (e quindi ospedaliero...) napoletano a Benedetto Croce con cui commenta il Decreto 549 del 10 febbraio 1924 del Ministero della Pubblica istruzione, fatto varare da Giovanni Gentile, con cui di fatto si consegnava l'insegnamento ai medici universitari: "vorrebbe asservire (il decreto) gli ospedali alle cliniche universitarie" favorendo così "l'invasione dei professori ufficiali di clinica con tutto il loro servitorame".
Appunto.....

martedì 3 aprile 2012

Le "bialere" di Bussoleno

Il dizionario Gabrielli alla voce Bealera riporta: "canale che trasporta acqua utilizzata per irrigazione o per produrre forza motrice". Nel 1959 avevo otto anni e non mi ponevo il problema di dove arrivasse qull'acqua in continuo scorrimento che lambiva il giardino della casa di campagna per poi sparire all'altezza del passaggio a livello e ricomparire molto più avanti lungo i prati che costeggiavano la strada in ghiaia per Chianocco. La bialera (il termine corretto di bealera mi era ignoto) era un luogo di divertimento, di sorprese e di avventura. Un giorno mi ritrovai tra le mani un pesce rosso quelli che allora nei Luna Park potevi pescare con una canna da panciuti acquari disposti su piani al centro di un gazebo multicolore. Al primo pesce ne seguì un secondo e poi sempre più, tutti morti ma ancora belli colorati. Ne portai uno a casa per provare quello che consideravo un vero fatto eccezionale, sapendo per esperienza che le bialere non erano abitate da pesci di sorta. La spiegazione di mia madre, sbrigativa, fugò ogni aura di mistero: qualcuno se n'era liberato gettandoli in acqua, essendogli morti. Le acque della bialera sapevano di fiume e di fango ma eran pur sempre belle limpide e scorrevano veloci, giorno e notte. Nei caldi pomeriggi d'estate era un piacere immergere le gambe nude in quell'acqua così familiare e inoffensiva e lasciar partire veloci nella corrente barchette di carta, bastoncini o semplici foglie strappate lungo le rive. Ci si divertiva con poco davvero e le giornate erano eterne. Fu prima che interrompessi il rito delle vacanze estive in campagna che le bialere cominciarono a sparire, interrate o coperte. Non c'era più motivo di rifornirsi d'acqua per irrigare orti e prati. L'acqua arrivava in tubi di gomma, sotto pressione e a comando. Ma allora ero già grandicello e il piacere di quell'acqua e delle sue sorprese non mi interessava più.

lunedì 2 aprile 2012

Pamuk uomo, Pamuk scrittore

Il meccanismo è sempre lo stesso. Scopro un nuovo scrittore attraverso un testo. La lettura mi piace, mi appassiona. Approfondisco la conoscenza con altri suoi libri e discretamente comincio a chiedermi quale tipo di uomo si celi dietro la scrittura, quali siano i suoi gusti, le sue abitudini e i difetti. Ne ricerco il carattere, l’umanità, oltre quello che traspare nei suoi romanzi. Anche quando nella pagina vengono snocciolati con apparente sincerità gusti, umori ed abitudini o la descrizione della fatica di scrivere, sono sempre diffidente. La parola scritta che compone un romanzo è sempre il risultato di un artificio di fantasia, di un meccanismo creativo con cui chi scrive manipola, maschera, traduce il reale senza spesso avvicinarsi alla verità.
Mi è capitato di provare queste sensazioni, ultimamente, con Pamuk. La sua scrittura da un lato mi attrae quando affronta i temi legati all’infanzia e alla sua storia familiare, quando descrive Istanbul e soprattutto quando affiora la sua natura ibrida di scrittore che guarda all’Occidente con la consapevolezza profonda delle sue origini, dall’altro mi scoraggia la complessità del suo stile che mi ha portato ad interrompere a metà più di un suo libro (La casa del silenzio, Neve). L’interesse per la sua scrittura ha avuto pertanto fasi alterne. In questo periodo per esempio, benevolmente rigenerato dalla lettura dei saggi di Altri colori, mi sono riaccostato fiducioso. E’ quindi reiniziata la voglia di conoscere l’uomo che sta dietro lo scrittore. E se si vuole trovare una traccia reale di un personaggio pubblico qual miglior strumento di Google! Il grande dispensatore di conoscenza che  annovera sia Wikipedia che la notizia spicciola ricavata dal giornale scandalistico di turno. E’ così che ho scoperto che dietro i giorni e  mesi di travaglio creativo in cui l’autore si isola dal mondo e in un alloggio del quartiere di Istanbul che l’ha visto crescere, porta a termine i romanzi che tutti leggiamo, ci sono anche i giorni dell’artista girovago e globale che attraversa i continenti per passeggiare sulle spiagge dell’oceano indiano con la penultima bella di turno o fugge (pare) in America latina per dimenticare i contrasti con l’ultima-ultima sua fiamma, un’artista turca. Né più né meno di un comune uomo delle italiche cronache. Alcuni hanno ventilato il sospetto che l’attenzione mediatica che negli ultimi mesi si è concentrata sullo scrittore turco sia opera delle forze conservatrici anatoliche più retrive che male hanno sopportato l’ascesa nel firmamento delle celebrità di chi ha in passato ha denunciato i genocidi turchi verso curdi e armeni. E così i maligni (Corriere della Sera del 12 gennaio) mormorano che se nel 2005 Pamuk fuggiva in America sotto le minacce di morte dei gruppi nazionalisti, ora fugge dal suo  paese per assai meno nobili motivi. Contrattempi ed amarezze della notorietà… Di sicuro Pamuk ha lasciato da molto tempo i panni dell’uomo scrittore autodescritto nei suoi romanzi, intento a cogliere le piu’ riposte e segrete vibrazioni della sua meravigliosa città o a ripercorrere umilmente le tracce della sua grande storia familiare. Le cronache lo vedono più prosaicamente sfrecciare attorno al pianeta, tra una conferenza e una lezione, attento a dosare le interviste e a ricreare continuamente il suo personaggio e la sua evolvente turcità (orribile parola letta nel web). Disillusione dunque oppure sana risposta ad una infatuazione nata e cresciuta all’ombra delle sue pagine. Da ultimo ho cercato anche un video di una sua conferenza/incontro e ho trovato la lunga registrazione nella sala del Gran Consiglio in occasione della sua visita a Genova nel maggio 2011. Ho scoperto un Pamuk rilassato nonostante un  ricorrente  tic facciale e la veloce e costante manipolazione di una penna tra le dita della mano destra. In un’ora e mezza riesce ad essere interessante e divertente ad onta delle continue interruzioni dovute alle necessità di traduzione. Ma allo stesso tempo tutta la piacevolezza di assistere alla lunga conferenza non mi impedisce di pensare che uno scrittore, svelandosi al pubblico, oltre la pagina scritta, perde qualcosa di fondamentale e cioè la magia in cui ogni lettore avvolge amorevolmente e intimamente l’uomo scrittore. La rivelazione uccide il sogno, la familiare consuetudine nata e sviluppata da ore e giorni di lettura viene sacrificata dalla umana realtà di una persona in carne ed ossa che parla, ride e scherza con silenziosi ed ammirati interlocutori. E in conclusione rimane anche il leggero imbarazzo che proviamo per risposte di Pamuk a domande rivoltegli centinaia di volte, per la noia che si cela dietro i sorrisi di convenienza, per la volontà comunque realizzata di diventare un uomo di spettacolo fuori dagli angusti confini di una stanza al settimo piano di un condominio di Beyoglu…. Invito infine ad ascoltare il Pamuk che si esprime in turco da quello corretto ma asettico che parla in inglese