venerdì 27 dicembre 2013

Cité Universitaire de Genève en 1967...



7-23 agosto 1967
Città Universitaria di Ginevra
Mein Urlaub in Genf 1967

Con il soggiorno alla Città universitaria di Ginevra mi affacciai definitivamente ad una nuova giovinezza e , in un certo senso, mi distaccai idealmente dalle consolidate atmosfere familiari. Avevo 16 anni e avevo portato a termine senza grandi scossoni il terzo anno di liceo. Il viaggio a Ginevra fu deciso perchè lì da molti anni viveva mia sorella e questo attenuava le paure di mia madre di sapere il (giovane) figlio lontano e per la prima volta senza controlli. Furono necessari alcuni giorni per costituire una eterogenea compagnia che racchiudeva una mezza dozzina di nazionalità europee e non.... La pallavolo che praticavo da qualche anno, fu certamente d'aiuto, per il resto i riti comuni dei pasti e gli incontri nella grande sala a piano terra contribuirono alla conoscenza dei residenti.
Le camerate erano comuni, molto spartane e molto pulite. Le notti erano talora animate da grevi russatori....

Le belle giornate permisero molte partite nel campetto sposrtivo della Cité.

                             
Da sinistra in piedi Bich ed Oh (Vietnam), Wolf ed Burkhard (Germania), Accosciati Wagner (Germania), Knut (Norvegia), Manolo (Italia), John (Stati Uniti)
Wolf era uno spirito allegro, ironico e scanzonato, nonchè discreto suonatore di pianoforte: cercò a lungo di farmi pronunciare correttamente il dittongo tedesco "eu" senza mai dichiararsi completamente soddisfatto del risultato.
Burkhard, sul campo di pallavolo pessimo giocatore, nei dialoghi oziosi del pomeriggio era un fine intenditore di musica.
John, imprecava spesso, animo nervoso e irrequieto
Angelica e Chistiane, ragazze di Monaco di Baviera in soggiorno di studio in città. Con Angelica, che studiava giornalismo a Regensburg, mantenni una decennale corrispondenza in francese da ogni parte del mondo. Grande viaggiatrice, cordiale e curiosa, spedì la sua ultima cartolina dal Messico a metà degli anni 70.


Angelica, freundlich und neugierig, schickte mir seine letzte Postkarte aus Mexiko in der Mitte der 70er Jahre.

mercoledì 16 ottobre 2013

1951, la Falchera di Torino: nascita di un quartiere

 1951: Nasce il quartiere


Giovedì 6 Settembre 1951 LA NUOVA STAMPA
INIZIATIVA DELL'INA CASE PER LA RICOSTRUZIONE EDILIZIA
Sorge un "satellite urbano,, nella zona della Falchera
Alloggi per seimila lavoratori • La concezione sociale del piano
E' giunto nei giorni scorsi a Torino l'ing. Bongiovanni, alto funzionario dell'Ina-Casa, per prendere con il Comune gli ultimi accordi su questioni di dettaglio riguardanti la costruzione del quartiere abitabile della Falchera. Anche questi problemi sono stati risolti facilmente ed ora il piano sta passando nella sua fase esecutiva: infatti tra una decina di giorni sarà indetto l'appalto dei lavori che dovrebbero avere inizio subito dopo. L'esecuzione delle opere è stata suddivisa in due tempi: nel primo sarà costruito circa la metà del quartiere; nel secondo tempo verrà ultimato l'altro lotto di case. La spesa complessiva dei lavori si fa ascendere a due miliardi e mezzo di lire e la loro durata viene calcolata in quattro anni. La nuova unità residenziale ospiterà seimila persone. Vari motivi, sociali, pratici e tecnici, hanno indotto i progettisti del piano a scegliere la soluzione del quartiere autonomo alla periferia della città anziché quella della disseminazione nell'area urbana degli edifici destinati agli operai. Il gruppo degli architetti che ha elaborato il piano  Falchera si è ispirato agli esempi delle città-giardino inglesi, delle greenbelt's nord-americane, dei quartieri svedesi in cui effettivamente la vita individuale e di famiglia può svolgersi con minor peso e più libertà che non nell'agglomerato cittadino; la scelta di aree esterne contribuisce inoltre al decentramento urbano (e quindi è fondamentalmente sana) e consente la dislocazione di case per operai in zone industriali. Fra tutti i terreni disponibili è stato scelto quello della Falcherà perchè di minor costo, e interessante una zona dove esiste il maggior concentramento di stabilimenti industriali (Montecatini, Snia, Ferriere, Savigliano, Michelin e moltissime fabbriche della media e piccola industria). Qui inoltre, vi è una disponibilità molto elevata di terreno pianeggiante ben delimitata da confini naturali (a est autostrada, a ovest strada di Leini, a sud cascine e casette, a nord un bosco di querce e la cascina Gli Stessi. La distanza del satellite urbano da piazza Castello è di sei chilometri, pari, cioè, a quella di Mirafiori dal centro della città; tale distanza può essere coperta in trenta minuti con il tram o il filobus. Trovandosi il villaggio all'incontro dei corsi Vercelli e Giulio Cesare con la strada statale numero 11 per Settimo-Chivasso, le comunicazioni con Torino risultano facili; basterà intensificare e modificare le corse degli autobus per Leini e dei filobus per il villaggio Snia o istituire qualche nuova linea. Ed ecco come è stato concepito il quartiere. Un sistema di grandi edifici a tre piani si articolano attorno a grandi spazi verdi. Su questi ampi cortili, non lastricati, ma trattati a prato con giardini, frutteti, boschetti, si affaccia la vista degli alloggi. Da questo lato vi sono camere di soggiorno e da letto per permettere a chi arriva stanco dal lavoro di trarre ristoro dalla contemplazione della natura; alla madre di vigilare, mentre lavora, i figli che giocano sul prato; alle famiglie di ritrovarsi dopo cena a scambiare quattro chiacchiere e a godersi, d'estate, il fresco. Sul lato esterno delle case, invece, costeggiate dalle strade, sono disposti in prevalenza i servizi e le scuole. Il satellite che sorgerà alla Falcherà avrà quattro quartieri in ognuno dei quali vi sarà un asilo-nido: un piccolo fabbricato ad un piano, costruito in mezzo al verde in cui le madri che vanno a lavorare lasceranno i loro bambini. Particolare importante: le grandi distanze fra le case e gli alberi di alto fusto piantati nelle corti impediscono agli inquilini che stanno di fronte di vedere nei rispettivi alloggi e attutiscono i rumori. Da questa sommaria descrizione risulta chiaro che il piano è stato concepito per una classe di lavoratori specializzati, che del proprio appartamento sono irriducibilmente gelosi significando, questo, la famiglia ed esaltando la propria individualità. Nel complesso il centro residenziale della Falcherà è un vero e proprio nucleo urbano; infatti ha un centro amministrativo assistenziale (uffici postale, di polizia, bancario, delle assicurazioni e ambulatori), un centro commerciale (negozi, botteghe di artigiani, uffici di professionisti), un centro religioso (chiesa parrocchiale), un centro sociale (cinema, sala di lettura e per riunioni, biblioteca), un centro culturale che comprende le scuole elementari, e una zona sportiva. Il progetto è degli architetti Astengo, Molli Beffa, Passanti, Renacco i quali hanno avuto validi appoggi per la sua realizzazione dall'ing. Guata (presidente del comitato di attuazione dell'Ina-Case), dall'ing. Torretta, funzionario dell'Amministrazione Provinciale, dall'assessore del Comune ing. Reviglio e dal Municipio che provvede alla costruzione delle strade principali, dei servizi igienici collettivi, dell'impianto di illuminazione pubblica e delle scuole elementari.


Mercoledì 3 - Giovedì 4 Dicembre 1952 STAMPA SERA
LE NORME DI COSTRUZIONE FISSATE DAI TECNICI DEL COMUNE
Edifici ad U sorgono alla Falchera. Sarà un quartiere alla periferia della città
In una sala del palazzo municipale sono esposti al pubblico, oltre ai piani per la ricostruzione del centro cittadino e la creazione di un poderoso complesso di edifici, nella zona di Mirafiori, anche i piani del nuovo quartiere in regione Falchera, che l'INA-Case intende realizzare. Il progetto comprende pure la relativa ampia zona di protezione e di vincolo necessaria per l'isolamento del nuovo quartiere e la sua conservazione secondo il piano previsto. Il centro della Falchera  è concepito secondo i più moderni concetti urbanistici. Le costruzioni saranno esclusivamente del tipo aperto, cioè a forma di U largamente svasato. Ogni gruppo di edifici di utilità pubblica o di uso collettivo, la chiesa, la scuola, gli asili infantili, costituirà una soluzione organica ed unitaria, sia come massa che come linee architettoniche le aree racchiuse, per ciascun gruppo di. fabbricati, saranno destinate all'uso collettivo degli abitanti, per costituire distinte zone di circolazione, assegnate rispettivamente ai bambini fino ai sei anni ed ai ragazzi delle scuole elementari e di avviamento, ed a zone di riposo per gli adulti. Le aree perimetrali al quartiere sono invece destinate ad uso agricolo e sottratte all'uso collettivo degli abitanti del nuovo quartiere. La zona a sud, dove esistono alcune strade private la cui apertura è stata a suo tempo riconosciuta con regolare atto della Città, è destinata a zona residenziale estensiva per ville con giardino o case dell'altezza massima di tre piani fuori terra (11 metri), con sfruttamento limitato ad un quarto dell'area totale di ogni singola proprietà. Tuttavia le strade private relative a questa zona conservano il loro carattere privato. Nelle aree vincolate a verde agricolo od a bosco privato, zone che costituiscono un'estesa fascia tutt'attorno al nuovo quartiere della Falchera Ina-Case, non è consentita la costruzione di qualsiasi tipo di fabbricato, ad eccezione dell'ampliamento degli edifici rurali esistenti e della costruzione di quelli nuovi nello stesso tipo, di cui fosse dimostrata la necessità per esclusivo uso agricolo. Per tutta la superficie corrispondente ai limiti del quartiere non è consentita la costruzione di industrie di qualsiasi tipo, e sono ammessi soltanto laboratori artigiani. Alla Falchera, su un'area di 322.976 metri quadrati, com'è noto, sta sorgendo un grandioso complesso di edifici destinati a diventare un popoloso sobborgo della città. Il progetto preparato dagli architetti Astengo, Molli-Boffa, Passanti, Renacco, Rizzotti, Beker, Romano e Sotsass prevede la costruzione di una quindicina di edifici a tre piani per un complesso di 5665 vani e 1446 alloggi dove troveranno posto circa 6 mila persone. Oltre alle case d'abitazione, saranno costruiti altri edifici destinati a soddisfare tutte le esigenze della piccola comunità: una chiesa parrocchiale, quattro asili nido, una scuola elementare, una scuola di avviamento professionale, un centro culturale, un cinematografo coperto e uno all'aperto, un centro sanitario, un edificio per la Banca, la posta, il telegrafo, il telefono ecc., un ristorante con alloggio, due caffè, quattro trattorie, una stazione per autobus, un mercato coperto, 18 negozi di quartiere, 45 negozi centrali, 20 laboratori artigiani di quartiere con alloggio, 8 laboratori artigiani al centro con alloggio, 4 autorimesse di quartiere, una autorimessa centrale e infine una casa a nove piani per negozianti e professionisti.





martedì 8 ottobre 2013

Giovani di città

Lunedì ora di punta, verso sera, portici di corso Vittorio, il vecchio albergo Ligure chiuso da tempo.... gente che cammina veloce, un ragazzo incappucciato con i pinocchietti jeans sulle gambette pelose sta armeggiando con una bomboletta nera. Traccia dei simboli su di una porzione ancora integra di muro, creando svolazzi privi di senso. Deve essersi esercitato a lungo ed averne consumate di bombolette prima di arrivare al risultato che pian piano prende forma sul muro giallo Piemonte davanti a lui e al suo cappuccio grigio. In breve voilà.... l'opera è compiuta, il segno è una firma particolare, ma in verità ricorda una delle migliaia di tratti visti innumerevoli volte sui muri, della città creazioni banali e senza fantasia. Il ragazzo finisce, si volta e mostra il viso, un viso comune ma con occhi che mi colpiscono. In essi c'è un espressione vacua, indefinita, c'è la soddisfazione del "guizzo" che per alcuni secondi l'ha fatto emergere dalla sua infinita mediocrità. Mi è venuto da pensare allo sguardo ultraterreno di chi si è appena fatto una dose e sta volando verso il nulla dei paradisi artificiali.... Anche la scelta dell'ora e del posto indica l'esistenza di un bisogno da soddisfare immediatamente, irreprimibile ed imperioso. Il ragazzo non si distingue da uno dei suoi coetanei che ogni giorno imbrattano i muri della città, spinti da una disperata volontà di uscire dal nulla delle loro menti. Non si possono neanche definire writers: i writers, almeno, riescono a strutturare una linea di pensiero coerente con un ideale d'arte, attraverso l'immagine e la rappresentazione. Il nostro anonimo bombolettaro è invece espressione di un vuoto, di una esclusione dalla vita civile votata all'emarginazione. Non c'è nessun intento comunicativo non sostegno di un ideale sportivo (W Juve, a morte i Gobbi ecc) o politico/rivendicativo (Okkupa tutto! w la Palestina, NO TAV ecc) o amoroso/dichiarativo (Anna TI AMO, 6 la mia vita!! Rimanerai sempre nel mio cuore): qui c'è solo la solitaria proposta di una "firma" da mostrare per continuare ad esistere



Parte seconda
Ma perchè di notte, nelle aree pedonali i giovinetti sentono il bisogno di urlare come maiali scannati?
Non di parlare ad alta voce si tratta, ma di urlare frasi sconnesse, sghignazzi e convulse risate. Non può solo essere l'alto tasso alcolico di innumerevoli drink S alcolici, a creare questa trasformazione, ci devono essere ragioni più terra neve... Forse l'urlo serve a coprire la desolante mancanza di argomentazioni di chiara origine umana, per cui vien fuori il furore belluino dell'animale così simile a quello del raptus accoppiativo, quando la fregola della riproduzione ottenebra i sensi. Parlano infatti molto poco, ridono a dismisura e gridano. Alcune varianti sono i giovani con i segni del tifo calcistico : anche qui domina l'urlo, talora con cori inneggianti a squadre cittadine. Spesso la furia cova nel loro vagare notturno, rovesciano cassonetti, spaccano deflettori di auto in sosta o panchine. Anche qui una furia insensata, nata da anni di sottocultura in ambienti familiari degradati. Non c'è possibilità di redenzione, il loro destino la loro imbecille esistenza è segnata.....


sabato 31 agosto 2013

Il Monte Chenaillet

Lo Chenaillet ha una interessante caratteristica, quella di essere  un antico vulcano sottomarino risalente a circa 155 milioni di anni fa, sollevatosi a causa della formazione della catena alpina. Sul "sentiero geologico" che ben tracciato sale alla cima del monte, si incontrano alcuni pannelli didattici che mostrano le caratteristiche dei sedimenti che si incontrano: i gabbri, rocce granulose in cui è possibile riconoscere la struttura cristallina e i basalti, più compatti e scuri chiamati pillow-lava, vere e proprie bolle rocciose formatesi sotto il livello dell'acqua, tondeggianti dal diametro di 50cm-1metro.


 
Salendo incontriamo dunque tutti i vari tipi di roccia che si sono formati e plasmati a seconda della loro posizione nella litosfera o nella crosta oceanica e del tempo di raffreddamento impiegato per consolidarsi dopo l'eruzione magmatica (gabbro raffreddamento lento, basalto più rapido). Nella cartina qui sotto sono riportati i tre settori principali della distribuzione geologica. 


In basso troviamo il colore scuro della peridotite (da cui si è evoluto il serpentino), nella fascia mediana i massi di media grandezza più chiari dei gabbri e in alto le rocce basaltiche più frammentate e minute.

Dicevamo 150 milioni di anni fa.... Al tempo del Giurassico superiore le rocce della nostra montagna costituivano il fondo di un oceano alpino nato dalla separazione dei continenti europeo e africano.
In seguito al successivo riavvicinamento dei due continenti (65 milioni di anni fa) e alla loro collisione si ebbe la nascita della catena alpina e la scomparsa dell'oceano.
Si può arrivare in cima allo Chenalliet in vari modi. Quello che consiglio si svolge ad anello ed è forse il meno faticoso.

Da Montegenèvre conviene evitare di prendere il sentiero verso i forti Gondran e Janus che nel primo tratto è noioso e poco interessante e salire con la comoda cabinovia che in pochi minuti porta dai 1820 della stazione a valle ai 2200 della superiore: da qui si prende la larga strada sterrata che scende verso l'altro impianto a seggiovia, verso il Forte Gondran. In prossimità del laghetto nei pressi del piccolo parco geologico dove pannelli illustrano i vari tipi di roccia della zona, è ben visibile una traccia in salita verso lo Chenaillet. La strada in breve si restringe fino a diventare un sentiero che ben tracciato serpeggia lungo le pendici Nord della montagna e compaiono i primi cartelli che indicano il sentiero geologico. Giunti al livello dei grandi massi di gabbrio, volgendo lo sguardo in basso ritroviamo tutti punti di riferimento, tra i quali la minuscola capanna dei doganieri, puntino bianco nei pressi della pineta che costeggia il lato ovest del lago.



In alto troviamo ormai invece la miriade di rocce frammentate che costituiscono il gabbro


La salita è faticosa, con continui zig zag su di un fondo ormai costantemenete pietroso ma stabile e ben delineato che non è consigliabile abbandonare per non rischiare di provocare pericolose frane di pietrisco.
L'arrivo in cima ricompensa però di ogni fatica: la vista è a 360° con il paese di Montgenèvre da un lato


e la immancabile sagoma del picco di Rochebrune dall'altro.


Due bei cartelli in ceramica indicano tutta la lontana skyline montuosa verso Nord e Sud.
Lo Chenaillet è anche, oltre che pagina geologica, pagina di storia. Durante la Seconda guerra mondiale, qui si svolsero alcune azioni offensive in seguito alla dichiarazione di guerra alla Francia del 10 giugno 1940. Il 22 e 23 giugno unità della 26a Divisione di fanteria Assietta occuparono la zona fortificata del Monte Chenaillet. Le pendici della montagna recano ancora i segni delle opere militari francesi


oltre ad un certo numero di reticolati, lamiere, pali ormai rosi da ruggine di decenni.

Il colle Chenaillet visto dal basso

Il percorso di ritorno si può effettuare verso il Colle dello Chenaillet, direzione Sud, deviando poi a sinistra verso est e seguendo le tracce delle ampie piste da sci sterrate che arrivano dal settore del Rocher de l'Aigle. Anche questo tratto, sempre in discreta pendenza e su fondo pietroso sdrucciolevole, è lievemente faticoso ma assolutamente tranquillo. Poco prima della stazione a monte della cabinovia delle Chalmettes, un ultimo strappo in decisa salita ci riporta al punto di partenza della passeggiata





venerdì 9 agosto 2013

Memorie storiche della Città di Torino: la ferrovia Torino-Rivoli

LA STAMPA DELLA SERA - Giovedì 12 Dicembre 1935 - Fantasmi della velocità Il primo trenino da Torino a Rivoli

Un giorno dell'anno 1812 il paese di Lù, in provincia di Alessandria, dava i natali a un bel tipo di piemontese: Giovanni Colli. Per chi conosce la storia della prima ferrovia a scartamento ridotto Torino-Rivoli, questo nome non riuscirà nuovo. Poichè esso appartiene a colui che immaginò e costruì la ferrovia e — secondo le satire del maligni — spinse, sul novissimo binario, a forza di braccia e con immensa fatica, il convoglio recalcitrante. Ma lasciamo ai maligni l'inutile scherno e tributiamo il nostro reverente ricordo a codesto valoroso innovatore che, se da un lato sudò le tradizionali sette camicie a spingere innanzi la sua vaporiera, dall'altro, il nobile sforzo servì ad aprire la strada alla futura e rapida tranvia elettrica.
Contro l'opinione pubblica
Dicevamo che Giovanni Colli nacque nel paese di Lù. Precisamente. E vi crebbe sino all'età giovanile. Ma la vita di provincia non era fatta per lui. Si sentiva una gran voglia di operare e sovratutto di far fortuna. Ancora ragazzo, un bel giorno — siccome a quel tempi andava di moda parlare così — così parlò ai genitori: — Babbo e mamma, io voglio partire: voglio andare a Torino a cercar fortuna —. E ricevuti i loro abbracci e le loro sante benedizioni, se ne venne nella capitale del Piemonte. Non certo, però, nel viaggio verso l'affascinante città dei Principi e del Re Sabaudi, il Colli pensava di giungere, un dì, a tanta popolarità. Egli era solamente fiducioso nella propria volontà e nel proprio desiderio di lavorare. Difatti, giunto alla meta, il giovane si dette da fare e i primi anni li trascorse lavorando assiduamente. Mente sveglia e di larghe vedute, egli seppe conquistarsi una posizione dì primo piano. Partecipò alla costruzione del canale della Ceronda, all'ampliamento di piazza Statuto, ed assunta l'impresa del tronco Torino-Venaria della ferrovia di Ciriè, conobbe il suo futuro coadiutore, ing. Lorenzo Raimondo, allora direttore di detta linea. Fra i due uomini si stabilì subito una calda cordialità ed una perfetta identità di vedute. Si che, ben presto, essi vennero all'ideazione della ferrovia Torino-Rivoli. Il sogno fu bello, rapido e radioso; ma quando si scese alla cruda realtà, il risveglio — com'è risaputo in tutte le cose — non fu certo felice. C'era da combattere contro lo spirito anti innovatorio dell'opinione pubblica! E poi, secondo i più, restringere lo stradone di Francia era un delitto, un'offesa arrecata alla serietà di quel gran scenario d'alberi e di cielo che è il viale di Rivoli. Figurarsi, inoltre, se gli ottimi abitanti di quelle contrade volevano andar incontro a pericoli e udire il chiasso di ferraglie sbuffanti vapor d'acqua! A questi ostacoli non certo indifferenti bisognava aggiungere quelli di indole tecnica e di espropriazione. Giovanni Colli non cedette le armi. Anzi, ogni giorno di quel periodo di battaglia lo si poteva vedere, fermo, per lunghe ore sul viale a meditare, a far rilievi topografici e a contare tutte le persone che vi transitavano. Tanto travaglio non doveva andar perduto, poiché il 3 novembre 1870 —proprio quando era ultimato il grandioso Traforo del Fréjus — il Governo dava concessione al neocavaliere Giovanni Colli di costruore ed esercire “a tutte sue spese, rischio e pericolo” la ferrovia a vapore ed a scartamento ridotto fra Torino e Rivoli e affidava gli studi e la direzione dei lavori all'Ingegnere Lorenzo Raimondo, progettista. La Provincia concedeva il sedime sul Iato a notte della via, il comune di Torino concorse per 40.000 lire e quello di Rivoli per 80.000, oltre al terreno per le rispettive stazioni e nel medesimo tempo ambedue gli enti stipularono un contratto con l'imprenditore, per il quale il medesimo si assumeva la costruzione e l'esercizio della ferrovia economica, mediante un sussidio a fondo perduto di lire 120.000 e la cessione gratuita dei terreni. La linea, a scartamento di metri 0,90, misurava una lunghezza di 11.750 metri ed aveva il beneficio di non presentare curve. Perciò le difficoltà erano esclusivamente altimetriche. Si pensi che oltre a considerare la differenza di livello fra i punti estremi Torino e Rivoli (il primo- metri 240; il secondo m. 350) occorreva compensare la bassa detta di Dora e l'altura detta trucco di Silogna. Gli scavi, poi, di eguale lunghezza della linea e di una profondità di circa sei metri e mezzo dovevano essere aperti a forza di mine perchè vi si incontravano massi di pietra e di conglomerato. Ecco perchè la ferrovia di Rivoli si potè dire veramente una ferrovia “studiata”. Fatti i preparativi nell'inverno, la costruzione venne intrapresa verso la fine del febbraio 1871 e condotta, a compimento in un semestre. Il bello avvenne il giorno della inaugurazione, 17 settembre, lo stesso giorno in cui si solennizzava per i futuri traffici la ferrovia del Traforo del Frejus.
La stazione di piazza Statuto
I Torinesi di buona memoria e vecchia data ricorderanno l'antica e comoda stazione ad un solo plano ed a colonnati, che sorgeva in piazza Statuto e che, demolita nel '96 venne rimpiazzata dall'attuale. Ebbene fu proprio là che quella bella mattina di settembre si dettero convegno autorità, personalità, folla agghindata — le signore con le ampie gonne a mongolfiera e i magnifici cappelli alla rococò, levar di tube e baciamani, sorrisi languidi di quei nostri padri dai mustacchi pieni e rigogliosi. Fu veramente un convegno eletto in mezzo al quale, s'intende, si aggiravano i soliti umoristi burloni, sempre pronti a demolire la fatica degli altri, i quali dell'avvenimento fecero la seguente versione: — La vaporiera stava in mezzo a tutta quella gente. Con il gran collo di struzzo essa guardava avanti a sè con gli occhi accesi dei suoi fanali come uno che debba percorrere una lunga strada non ancora conosciuta; e, a tratti, dopo un colpo di tosse, soffiava. — La vaporiera, quella mattina, non aveva volontà di camminare e siccome quando fischiò il capo stazione, il macchinista la voleva fare andar per forza, essa, in un attimo d'ira, recalcitrò e spruzzò d'acqua calda tutti quei signori, che, estatici, con le palme delle mani levate stavano per applaudire. — Ma l'applauso scoppiò solo più tardi quando un signore dal panciotto a quadri si avvicinò alla vaporiera e con una volontà e una forza da titano si pose a spingerla. Chi era costui? 'L padròn del vapor al secolo Giovanni Colli. Allora si assistette ad uno spettacolo straordinario. Il convoglio piano piano, si muoveva – Bene! Evviva!- si gridava. E fra tanta festosità si udiva il potente sbuffare degli stantuffi. Cifù cifù… L’avvenimento doveva assurgere a più alta importanza. Durante il tragitto, quasi a simbolizzare e a glorificare la tenacia e la fatica degli uomini, che in opposte regioni operavano, il trenino Torino Rivoli incrociò il convoglio inaugurale della ferrovia del frejus L’incontro avvenne sopra e sotto il viadotto del Baraccone.
In seguito la ferrovia prosperò. Nel primo anno di esercizio si contarono 65937 viaggiatori. Nell’anno seguente il numero di essi salì a 232.000 per ascendere nel 1880 a 340.000, nel ’90 a 452.000 nel 1904 a 638.000 e così via Realizzatasi e resasi importante tale opera i maldicenti non seppero più cosa dire. Qualcuno però insinuò che il Cav. Colli faceva tirar la cinta ai propri dipendenti. Questo fatto, anche se fosse stato vero, doveva passare in secondo piano poiché il Cav Colli allorché giungevano richieste da parte del personale, in risposta aumentava strisce d’oro sui berretti, il che inorgogliva i dipendenti che si sentivano tanti padreterno.
Aster 

Polemiche......

La Stampa 10 Maggio 1912 Una lettera del Sindaco di Rivoli sulla ferrovia
 Dal sindaco di Rivoli riceviamo e pubblichiamo : «Permetta, Egregio Sig. Direttore, che, in omaggio alla verità, ed in relazione all'articolo comparso oggi sulla Stampa, col titolo: Come si amministra, le osservi : Non essere vero che il servizio della Torino-Rivoli fosse assicurato da una Società privata, che avrebbe costrutto una seconda linea in concorrenza a quella già esistente, le cui proposte il Consiglio comunale di Torino avrebbe respinto per evitare i danni della concorrenza fra le due Società. Sta il fatto invece che la Società d'Applicazioni Elettriche aveva chiesto ed ottenuto dalla Provincia la concessione del piano stradale per la costruzione di una nuova linea parallela a quella esistente; ma la Società ignorava, come forse la Provincia aveva dimenticato, che il Governo, con la concessione accordata al signor Colli, per l'esercizio della Ferrovia economica Torino-Rivoli, si era vincolato a non accordare per tutta la durata della concessione stessa, e cosi sino a tutto il 1932, il permesso di costrurre ferrovie o tranvie anche a trazione animale concorrenti e parallele alla distanza di tre chilometri. La Società di Applicazioni elettriche si trovò quindi nella impossibilità di usufruire della concessione ottenuta; tant'è che trattò con la «Finanziaria» l'acquisto della ferrovia, trattative che non furono poi coltivate, stante la richiesta della Provincia di un canone annuo di lire 1600 per ogni chilometro di percorso. «Il Municipio di Torino aveva perciò la convenienza massima all'acquisto della ferrovia, che rappresentava l'unico mezzo di liberarsi dalla servitù di non poter costrurre linee parallele a quella attuale alla distanza di tre chilometri, e cosi per una zona di terreno della larghezza di sei chilometri. « Torino avrebbe avuto interesse ad acquistare essa sola la linea; dovette costituirsi in Consorzio con Rivoli e la Provincia, perchè la prima aveva diritti acquisiti sulla ferrovia Torino-Rivoli, cui non poteva rinunciare, perchè la seconda pretendeva un canone annuo di L.1800 per ogni chilometro, che con il Consorzio si venne ad eludere, e perchè inoltre la Provincia aveva acquisito il diritto di esercire la ferrovia, dopo il 1932, per altri 30 anni. «Ringraziandola dell'ospitalità nel pregiatissimo suo periodico, mi raffermo con tutta stima «Il sindaco di Rivoli: Avv.E. Peyrot.



Brevi e precise risposte alla lettera dell'egregio Sindaco di Rivoli:
1a Nella deliberazione 20 gennaio 1909 della Giunta Municipale è riportata la seguente relazione del Sindaco Frola: «Nel 1908 il Consiglio provinciale di Torino approvava in massima la proposta della Deputazione provinciale, di concedere alla Società per le Applicazioni Elettriche di Torino la sede stradale, per l'impianto e l'esercizio di una tranvia elettrica Torino-Rivoli. Tale concessione veniva a precludere al Municipio il mezzo di regolare, secondo gli interessi e le esigenze della cittadinanza, il servizio tranviario di comunicazione tra il centro ed un sobborgo della città colla rete di tranvie del Municipio, le cui linee non avrebbero potuto trovare posto sullo stradale di Francia quando questo fosse occupato da un lato dalla ferrovia a vapore, dall'altro da una tranvia elettrica. Di più, la coesistenza dei due mezzi di trasporlo, pur migliorando le comunicazioni tra Torino e Rivoli, non avrebbe tuttavia permesso una sistemazione definitiva di un servizio inappuntabile e rispondente agli interessi dei due Comuni, ostandovi le difficoltà finanziarle che i due esercizi distinti di ferrovia e di tranvia avrebbero indubbiamente incontralo». Come vede l'egregio Sindaco di Rivoli, l' Amministrazione Frola — che è poi quella Rossi — mostrava la più profonda diffidenza su gli effetti della concorrenza... perchè due Società, per lottare l'una con l'altra, devono investire ognuna un capitale per proprio conto. Resta dunque quanto scrivevamo. Ma la lettera sopra riportata ci rivela un'altra cosa graziosa, a noi sfuggita: che cioè la Provincia faceva una concessione, che una precedente disposizione governativa le vietava di fare! E' un'altra... dimenticanza, da aggiungere a quelle da noi già elencate, quali lo studio dei preventivi, del costo di esercizio ecc. ecc.. E questa dimenticanza non era propria solo della Provincia. Perchè — come risalta dalla relazione Frola sopra ricordata — per evitare la concessione o la concorrenza «si fecero pratiche presso la Deputazione e il Consiglio provinciale» e si deliberò senz'altro il Consorzio. Ciò aggrava ancora di più di quanto noi credessimo le responsabilità dei nostri amministratori. Perchè se essi erano proprio spaventati dei supposti pericoli della concessione, fatta nel 1908 dal Consiglio provinciale alla Società per le applicazioni elettriche, bastava che impugnassero di nullità detta concessione, e ogni pericolo scompariva. E' chiaro? E allora, perchè ricorrere al mezzo disperato della formazione del Consorzio?
2. a il Municipio di Torino non aveva nessun interesse all'acquisto della ferrovia e alla sua trasformazione in tranvia elettrica al primo costo preventivato in L. 2.287.500, dopo che la relazione dell' Ing. Egg Lieberg — dalla Stampa riportata — provava che, anche col costo ridotto a L 2.188.000. la tranvia elettrica Torino-Rivoli rappresentava un affare insostenibile;
3. a infine, anche dato e non concesso quanto afferma il Sindaco di Rivoli, restano inescusabili quegli incredibili errori di cieca imprevidenza, segnalati dalla relazione Palberti e da noi ripetutamente posti in evidenza, per cui il costo è passato da 2, 3 a 4 milioni, sinché, anche se il Governo rinuncerà alle 50 mila lire di canone, la linea rappresenterà una permanente passività a carico delle finanze torinesi, già avariate da tutta una serie di opere scervellate della stessa portata di questa.  

La fine


10 Novembre 1955 LA NUOVA STAMPA
Il treno di Rivoli va in pensione.
Con la tristezza che è alla fine di ogni carriera — una tristezza, qui, fatta di cose consunte, sporche e immemori di colore — le sgangherate e traballanti vetture lasciano il passo ai modernissimi filobus dopo un accanito attaccamento alle loro rotaie. La storia della ferrovia si chiude con una anzianità di 84 anni; torinesi di quattro generazioni hanno fatto la spola milioni di volte fra Torino e Rivoli e viceversa, prima con la vaporiera che inaugurò il servizio, poi sulle vetture trainate da motrici elettriche. Il treno correva avanti e indietro a lato della strada: superava in un baleno i carri tirati dai cavalli e le diligenze: poi strane macchine a motore ebbero l'ardire di affiancarsi a lui e di contendergli il primato della velocità. Queste macchine, dapprima tozze, poi sempre più slanciate ed eleganti, accrebbero la rapidità: il treno fu superato, divenne il «trenino». Ma ancora un primato gli rimase, pur nel suo modesto ruolo: l'infausto primato delle sciagure. Si calcola che i morti siano centocinquanta. Ora che il treno si è deciso a cedere le armi, il servizio si snellirà e cosa di pari importanza, corso Francia potrà cambiare radicalmente aspetto acquistando maggiore spazio per il traffico. Da piazza Statuto fino all'altezza della Venchi Unica la sede stradale guadagnerà la superficie ora occupata dalia linea ferroviaria, mentre da questo punto fino a Rivoli la strada verrà addirittura raddoppiata. Quello che attualmente è il bordo interno della sede ferroviaria, diventerà il centro del corso dove una banchina di sempreverdi dividerà le due sedi stradali, ciascuna larga di 7 metri e mezzo. Ciò che ha fatto ritardare la soppressione del servizio ferroviario è stata appunto la necessità di poter raggiungere un accordo con l'Arias circa la nuova sistemazione della strada. I lavori incominceranno nel prossimi giorni e si protrarranno presumibilmente per otto mesi. In questo frattempo il traffico sull'attuale corso Francia si appesantirà in quanto da domenica entreranno in funzione cinque filobus integrati da sedici autobus. Le vetture filoviarie, articolate, sono di proporzioni eccezionali, capaci di 150-180 posti. Nel tratto urbano sì varranno di due distinte linee mentre invece da Pozzo Strada dovranno servirsi per ora di un solo filo in quanto il secondo verrà teso sul raddoppiamento della strada. Di conseguenza, in questo tratto, ad ogni incrocio di due vetture filoviarie, uno del due conducenti dovrà abbassare l'asta di presa di corrente per lasciare passare l'altro filobus. Se fino adesso corso Francia è stata un'arteria pericolosissima per il suo traffico intenso e convulso, a maggior ragione lo diventerà durante il periodo in cui ferveranno i lavori per il suo ampliamento. Due cose sono da auspicare: che il pubblico tenga continuamente presente questo pericolo incombente e che l'Anas faccia il possibile per accelerare l'esecuzione dell'opera.


mercoledì 31 luglio 2013

San Gangolfo e il tradimento

Leggendo la quasi quotidiana cronaca di uccisioni di donne (descritte con l'orribile eufemismo di femminicidio) da parte di mariti/amanti/fidanzati abbandonati, mi è venuto alla mente l'antica vicenda  di San Gangolfo, riportata da molti studiosi che si sono occupati delle relazioni familiari nell'Alto Medioevo. L'estratto che segue è tratto da un articolo di Aneta Pieniądz pubblicato nel 2011 sulla rivista Reti Medievali:

"......Un esempio particolarmente interessante di queste contraddizioni è costituito dalla Vita di san Gangolfo († 760 ca.), composta alla fine del IX oppure agli inizi del X secolo sulla base di una tradizione anteriore. Se accantoniamo la questione degli antecedenti letterari dell’opera e della storicità degli eventi descritti, la Vita fornisce informazioni sui costumi tradizionali del matrimonio e sulle relazioni all’interno della coppia coniugale nella società altomedievale e permette di comprendere meglio i mutamenti che si associano al processo di diffusione dell’ideale cristiano del vincolo coniugale. La moglie di Gangolfo, una donna che incarnava tutti i vizi femminili, commise adulterio con un chierico. Quando le notizie sull’infedeltà della coniuge giunsero alle orecchie del santo, lo assalirono una profonda tristezza e cominciarono i dubbi su come comportarsi con l’adultera. Da un lato, l’adulterio commesso dalla moglie poteva macchiare il nome di Gangolfo e privarlo dell’onore, e sarebbe stato dunque giusto e ragionevole uccidere la peccatrice per lavare con il suo sangue questa vergogna, dall’altro l’uccisione della coniuge fedifraga avrebbe condannato l’anima del marito alla punizione eterna. Gangolfo si decise a sottoporre la moglie a un giudizio divino per rendere manifesta la sua colpa e, costringendola a confessare il peccato, rese lecita la sua sopravvivenza. Si separò dalla moglie, ma le lasciò per tutta la sua vita i beni donati «in dotem sponsalicio iure», confermando l’indissolubilità del vincolo coniugale. Nella vita di Gangolfo la fedeltà alla legge divina faceva aggio persino sull’obbligo inderogabile di difendere il proprio onore. La paura che lo spargimento di sangue della moglie adultera e del suo amante potesse attirargli l’ira di Dio indusse il santo a rinunciare alla vendetta. Lasciare il giudizio nelle mani di Dio e astenersi dall’uso della violenza nelle relazioni coniugali sono gli stessi motivi che abbiamo già trovato nell’ideale del marito cristiano di Incmaro e che l’agiografo mostra come virtù del santo laico. E proprio quell’atteggiamento inaudito e la rinuncia della vendetta cruenta aprì a Gangolfo la strada per acquisire la corona del martirio con sacrificio della propria vita. Morì infatti ferito dall’amante della moglie, che lo assalì convinto che prima o poi Gangolfo avrebbe voluto regolare i conti. Nella narrazione dell’agiografo, il momento cruciale che determinò il destino di Gangolfo coincise con la sua decisione di agire al di fuori di una logica dell’onore. Tra l’ideale del cristiano misericordioso e il codice d’onore del laico guerriero esisteva una contraddizione radicale e insanabile, che fece della decisione di Gangolfo una vera prova di santità. L’interesse per la Vita di Gangolfo nell’ambiente ecclesiastico, che si constata nel numero di copie manoscritte e dei rifacimenti di cui la più famosa è stata scritta nel X secolo da Roswitha di Gandersheim, conferma l’importanza di quel modello di santità laica nell’attività pastorale della Chiesa e si inscrive negli sforzi compiuti per diffondere un modello di relazioni coniugali che, rispettando la gerarchia di funzioni e di responsabilità degli sposi, si fondavano sul principio dell’uguaglianza dell’uomo e della donna in Cristo e della santità della vita umana: ciò limitava la sovranità del marito sulla moglie, soprattutto per quanto riguarda il diritto di disporre della sua vita."

Incmaro di Reims e i suoi contemporanei sull’uxoricidio: l’insegnamento della Chiesa e la pratica sociale 
Reti Medievali Rivista, 12, 1 (2011)

In un altro articolo a firma di Alessandre Barbero, ricaviamo altri particolari sul Santo:
"L’importanza della figura di Gangolfo consiste nel fatto che nella Vita di questo conte franco, morto senza aver mai abbandonato la condizione laicale, è delineato per la prima volta un esempio di santità attiva e bellicosa, pienamente compatibile con gli impegni sociali di un laico potente. Come Geraldo anche Gangolfo, la cui unica attestazione documentaria è in un diploma di Pipino del 762, era un grande proprietario terriero, la cui famiglia dominava da generazioni la sua regione d’origine, e molto probabilmente vi esercitava ereditariamente funzioni comitali. Ma a differenza di Geraldo, Gangolfo è rappresentato dal suo biografo nell’esercizio di uno stile di vita pienamente confacente al suo rango e alle sue responsabilità. Certo egli è santo per la fedeltà all’insegnamento evangelico, l’assiduità all’ufficio divino, la carità verso i poveri, l’equità del giudizio e la rettitudine dei costumi; ma ciò non gli impedisce di adottare tutti quei comportamenti che ci si attendeva da un magnate franco del suo tempo.
La caccia, tanto per cominciare, è uno dei suoi passatempi preferiti: e l’agiografo prende energicamente le distanze da una consolidata tradizione monastica di condanna dell’attività venatoria, sforzandosi di dimostrare, con l’appoggio di diverse autorità, che si tratta al contrario di un esercizio legittimo e lodevole. Gangolfo, inoltre, è vassallo di Pipino e in virtù del “militare officium” che detiene ha spesso occasione di mettere la sua spada al servizio del re, che lo considera giustamente “inter fortissimos exercitus sui”: agli occhi dell’agiografo tutto ciò, lungi dal costituire motivo d’imbarazzo, rientra palesemente fra i meriti del santo, e lo dimostra la soddisfazione con cui riferisce che la sua armatura è tuttora esposta nella chiesa a lui dedicata. Gangolfo, infine, è sposato: e sebbene proprio il matrimonio sia destinato a perderlo, poiché sarà ucciso dall’amante della moglie di cui aveva scoperto il tradimento, l’agiografo, lungi dall’approfittare della situazione per criticare l’istituto matrimoniale, ne traccia un’apologia sorprendente per bocca dello stesso Gangolfo. Il santo infatti, scoperto il tradimento della moglie, la rimprovera amaramente per aver infranto un vincolo che avrebbe dovuto unirli per tutta la vita: “Optaveram, inquit, si fidem debitam servasses et in lege Dei ambulasses, omnia tecum saeculi discrimina perferre; quaecumque adversa contigissent, quaecumque prospera, collato tecum robore sustinere, simul pacienter vivere, simul delectabiliter mori”. Nessun autore, credo, della letteratura agiografica latina si era prima di allora impegnato in una difesa così appassionata e toccante della condizione matrimoniale, esaltata non come mezzo per incanalare l’impulso sessuale e consentire agli uomini di crescere e moltiplicarsi, ma come la scelta consapevole di due persone che decidono di affrontare insieme, nel bene e nel male, le prove dell’esistenza.
Ecco dunque un santo laico e potente, celebrato senza imbarazzo per il suo valore guerriero, alla fine dell’età carolingia; ed ecco un agiografo capace di affrontare con notevole originalità nodi concettuali complessi come quelli del matrimonio, della guerra, della caccia, che avevano sempre costituito e sarebbero rimasti anche in seguito un problema irrisolto nelle relazioni fra ecclesiastici e laici. Il fatto che l’autore della Vita fosse con ogni probabilità un chierico, addetto o comunque vicino alla chiesa di S. Gangolfo a Varennes, contribuisce certamente a spiegare lo scarso peso che la tradizione ascetica, di matrice prevalentemente monastica, pare aver esercitato sulla sua opera. Ma più in generale, proprio in relazione con l’itinerario fin qui seguito, non è sorprendente che una tradizione di ossequio verso il potere pubblico, e di ammirazione verso l’attività politica e talora persino militare dei grandi di palazzo, viva da secoli nell’agiografia franca sia sfociata proprio alla fine dell’età carolingia nella celebrazione di un personaggio come Gangolfo: un santo, cioè, che per la prima volta conquista ampia popolarità ed è apertamente riconosciuto come tale senza aver ricoperto alcun ufficio ecclesiastico, e anzi godendo pienamente di tutte le prerogative che si addicono a un laico potente."

Tratto da: Santi laici e guerrieri. Le trasformazioni di un modello nell’agiografia altomedievale
in Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarità, Torino 1994, pp. 125-140 




lunedì 17 giugno 2013

Vie di Torino: corso Ferrara

Lungo poco più di mille metri, vede convivere la maestosità di un Boulevard parigino (la larghezza è simile a quella degli Champs Elysées....) e la miseria di un vicolo napoletano (le frequentazioni sono anche in questo caso simili). Nasce dalla fine di corso Grosseto dove questo incrocia perpendicolarmente Corso Molise e muore nel nulla dopo un rettilineo tracciato su 9 corsie. Da un lato è per lungo tratto costeggiato dagli immobili del quartiere Vallette dall'altro dall'enorme terra di nessuno che a fatica dopo anni di progetti e cambiamenti cerca ancora una dignità territoriale cittadina. Qui è sorto nell'aprile del 1979  il campo nomadi  dopo che un primo nucleo di 250 persone si era accampato sullo spartitraffico del corso. Nei mesi successivi molte furono le proteste degli abitanti delle Vallette che mal sopportavano l'ingombrante presenza di persone che si ritiene per gran parte dedita ai furti e alle rapine. E' sempre del '79 una stima della polizia che reputa che il 70% dei casi di furti in alloggi in città è opera del popolo nomade. Il problema si trascina nel tempo e ancora ad inizio anni '80 è percepibile la tensione e il rifiuto verso questa fetta di popolazione non integrata. Sui giornali si leggono le dichiarazioni dei rappresentanti nomadi con cui si propone l'antico e poco credibile motivetto dell'onesto calderaio che lavora il rame e con questo mantiene la numerosissima famiglia..... Il dubbio però sulla veridicità di questo modello vacilla nell'osservare che accanto a molte roulotte stazionano lussuose Mercedes e BMW nuove di zecca..... Qualche ammissione al cronista sulla possibilità che non tutti gli zingari siano onesti, viene rilasciata
Col primo sole caldo dell'estate il campo visto dall'esterno sembra tranquillo e ordinato. Bambini che giocano a palla, panni stesi fuori dagli enormi Tir attrezzati a camper e poco oltre l'ingresso anonimo al numero 38, sulla via, una brunetta si aggiusta il gonnellino in attesa di clienti. 
La grande carreggiata sembra non avere mai fine, eppure dal suo nascere non sono passati che una manciata di metri. Sulla destra si stacca via Traves anch'essa diritta, disabitata apparentemente senza una fine. Al 46 il fabbricato del mercato ittico quindi poco oltre 
ecco che termina la doppia fila di platani  ed un'ampia curva a sinistra annuncia la fine del corso. Oltre solo campi e il lontano profilo di un insediamento industriale.

La prima citazione del corso si ha sulla Stampa del 30 dicembre 1962 ove si legge che saranno stanziati 140 milioni per "l'apertura di corso Ferrara tra via Sansovino e piazza Manno".
Poco dopo sempre sul quotidiano torinese viene annunciata (gennaio 1963) la requisizione di molte aree, tra cui quella a Sud corso Ferrara, per la costruzione di edifici per edilizia popolare. Nel 1961 in viale dei Mughetti erano sorte le prime unità abitative del complesso delle Vallette. Nell'agosto del 63 corso Ferrara è interessato dai lavori di scavo per l'installazione delle fognature che serviranno in zona al costruendo mattatoio, trasferito dalla vecchia sede di corso Vittorio Emanuele e corso Inghilterra. I lavori iniziano nell'estate dell'anno successivo e interessano u'area di 180 mila metri quadri: nel giugno 1967 lo stato dei lavori viene definito "avanzato" e si prevede l'apertura per il 1968. Nel giugno del 1997 corso Grosseto non è ancora in continuità col corso Ferrara. Nell'aprile del 1969 viene annunciata la prossima costruzione, vicino al mattatoio, del nuovo stabilimento carcerario che sostituirà l'ormai fatiscente complesso delle Nuove di via Pier Carlo Boggio.
Nel frattempo l'area di corso Ferrara diventa argomento di polemica in giunta comunale per l'utilizzazione dell'area delle cascine Continassa e Continetta, a nord del corso. Si tratta di 680 mila metri quadri, contigui al nuovo Mattatoio. L'assessore rag. Costamagna avrebbe volto che fosse destinata a un grande centro annonario, dove trasferire tutti i mercati, compreso quello ittico. L'assessore Paonni, aveva invece proposto di costruire nella vasta superficie di proprietà comunale, la nuova sede dell'ospedale per le malattie infettive Amedeo di Savoia. La costruzione avrebbe dovuto essere separata, con una vasta fascia verde, sia dal mattatoio, sia dal futuro Istituto di rieducazione Ferrante Aporti, a cui sarebbe destinata parte della «Continetta». A questa soluzione si dichiararono favorevoli i funzionari del ministero di Grazia e Giustizia per vari motivi e tra gli altri che il comprensorio era già collegato al centro, senza contare le infrastrutture previste dal piano regolatore con i comuni in continua espansione della cintura; che l'area era isolata, anche visivamente, dalle previste carceri giudiziarie malgrado la non eccessiva distanza (due chilometri); che le caratteristiche del clima erano ottime, trattandosi di una zona salubre e a spiccate caratteristiche residenziali; che il terreno poteva essere disponibile subito mediante la permuta con quello attualmente occupato da «La generala». Nonostante tutte queste istanze positive non se ne fece nulla e solo il mercato ittico vide in seguito colà la luce.
Nel 1994 viene ultimato il PalaStampa (poi divenuto PalaMazda)

domenica 26 maggio 2013

Tre giorni a Lione: appunti di viaggio

Impressioni
Lione è piacevolmente moderna nei suoi quartieri nati negli anni '70 (Part Dieu) e fine '90 (Confluence) e tenacemente rivolta ad un antico passato a ridosso dei due grandi fiumi che la percorrono da nord a sud (Croix Rousse, Presque l'Ile e S. Jean-Fourvière). Ovunque si vada, domina il punto di riferimento costituito dalla Tour Part-Dieu soprannominata dai lionesi le Crayon per via della sua forma aguzza e del colore bruno. Ai suoi piani alti è installato un hotel a tre stelle che ultimamente non gode dei giudizi unanimi dei visitatori su pulizia e decoro, questo nonostante che dalle sue camere si possa godere di una vista sulla città, impareggiabile. 


Un soggiorno in città può avere come base il quartiere di Part-Dieu che oltre ad disporre di moltissimi hotel per tutte le tasche, ha vicino sia la stazione omonima sia il trenino delle linee Rhones-Express  che in meno di mezzora portano a Saint Exupéry (aeroporto e treno TGV per l'Italia). Il centro città dista due chilometri esatti che a piedi sono piacevolmente percorribili guardando il succedersi di "ere" architettoniche man mano che ci si appressa al centro: il moderno fine XX secolo, il periodo tra le due guerre che somiglia molto al nostro periodo del ventennio per giungere ormai in prossimità del Rodano ai palazzi di fine '800 maestosi e solidi testimoni di una borghesia in pieno sviluppo. La scelta di concentrare le visite dei vari spazi significativi della città è molto varia ma può proficuamente seguire tre direttive: una è quella relativa alla collina a Nord della Croix Rousse con le sue erte salite fino al meraviglioso murale di Rue Canuts, dove un muro di caseggiato di 1200 metri quadri è stato negli anni dipinto e ridipinto, per adeguarlo ai cambiamenti del quartiere (i personaggi sono stati invecchiati man mano che passavano i decenni!)


Questo in origine era il retro spoglio e squallido del grande edificio. Questo è diventato dopo l'intervento degli artisti della CitéCreation.....



 La seconda area cittadina che merita una visita è quella a ridosso della Saone sulla sua sponda destra. Qui con ripidissime scalinate di centinaia di gradini si può salire fino all'area verde della Fourvière dove una terribile chiesa ottocentesca di Notre Dame racchiude gli orrori concentrati di un eclettismo delirante (gli interni soprattutto). Vale al pena, arrivati lassù, di imboccare a piedi il percorso che ad inizio 900 compiva in meno di un chilometro un trenino funebre adibito al trasporto dei feretri. Il cimitero ottocentesco di Loyasse, infatti pur in splendida posizione, era difficilmente raggiungibile per strada con i cavalli. Singolare storia quella di questo luogo consacrato all'eterno riposo di illustri lionesi: esposto a venti furiosi, più volte era stato colpito da  eventi naturali tra cui il tornado del 1847. La natura stessa del terreno pare che avesse inoltre molto difficile la decomposizione dei corpi..... Prima di giungere al cimitero possiamo fermarci sul viadotto lugo 80 metri da cui è possibile scorgere un grande edificio adibito ad ospedale gerontologico fondato nell'800 dalla pia Jeanne Garnier ricca e giovane vedova che consacrò la sua vita alla cura ed accoglienza delle donne incurabili della città che a quei tempi venivano respinte da tutti gli ospedali: una piccola edicola alla fine del ponte ne racconta l'opera. Tornando a note più serene, il quartiere che fa capo a S.Jean in basso, è sede dei famosi traboules, specifica attrazione della città:  si tratta in sostanza di passaggi coperti che attraverso più case private uniscono due vie, interrotti spesso da cortili su cui affacciano scale aperte a volte elegantemente porticate.

Il terzo percorso si snoda attraverso la presque l'Ile racchiusa tra i due fiumi della città. A nord vale la pena di visitare il grande Museo di Belle Arti che anche senza capolavori dell'arte mondiale ha molte tele interessanti soprattutto  nell'ambito lionese dell'800.

Il Musée des Beaux Arts
Di tutte le opere del Musée de Baux Arts una in particolare mi ha colpito. E' La Lecture di Henri Fantin-Latour. In un interno due donne siedono ad un tavolo: una legge la mano sinistra elegantemente a sorreggere la guancia, l'altra di profilo sembra guardare con espressione assente un punto fuori dal quadro. I vestiti sobri, scuri, il semplice arredo ridotto all'essenziale, due sedie un tavolino coperto da una tovaglia e un vasetto di fiori, tutto riporta all'ispirazione realista ed intimista della composizione. Unico tocco singolare, la scriminatura dei capelli della donna che legge che porta l'attenzione dell'osservatore alla fronte ampia della protagonista.  


A Sud dopo aver attraversato l'enorme piazza Bellecour ed aver superato la stazione di Perrache resta da vedere il quartiere ultramoderno della Confluence....

La Confluence
Il territorio situato alla confluenza del Rodano con la Saone pur appartenendo geograficamente al cuore della città è stato per molti anni una zona industriale considerata da molti poco degna di un centro cittadino. E' da questa considerazione che nel 1999 nasce, sotto gli auspici del sindaco di allora Raymond Barre, il progetto di bonifica dei 150 ettari. In pochi anni nascono così edifici ad uso commerciale ed abitativo mentre a lungo termine si lavora ancora per modificare la cesura rappresentata dalla stazione di Lyon Perrache che di fatto divide ancora l'area dal centro vitale del centro città. Per arrivare alla confluenza infatti bisogna ancora attraversare le squallide "voutes" ossia le volte di tunnel che sostengono la piattaforma della stazione ferroviaria. 


Poco più in la bivaccano in permanenza i disperati senza dimora kossovari, rom, bulgari con le loro masserizie e le loro storie di miseria. Periodicamente vengono evacuati ed espulsi ma in breve tempo ritornano a popolare i corridoi e le pensiline sotto la stazione. 

Photo Philippe Juste (modif)


Superate le voutes un buon chilometro dopo, lungo la Saone dove un tempo si aprivano le banchine di Port Rambaud, inizia la serie impressionante di nuove costruzioni nate nell'ambito del progetto di riqualificazione territoriale.     





Percorrendo la banchina della Saone non si arriva a vedere la confluenza con il Rodano, ci si deve fermare in un curatissimo giardino di nuovo allestimento a ridosso del ponte ferroviario. Per vedere l'unione dei due grandi corsi d'acqua bisogna imboccare il ponte Pasteur e prendere la banchina sottostante.














martedì 21 maggio 2013

Torino nera: via Mazzini, anno 1912

Un gravissimo delitto scoperto dopo quattro mesi. Costringe con minaccia di morte l'amante ad avvelenarsi. L’arresto del colpevole.
La Stampa 16.3.1912 
In un letto della sezione Carle al S. Giovanni, giace da tre mesi una povera donna ancora in
giovane età. I medici, le suore, le infermiere che l'assistono, e le poche persone che si recano
a visitarla, si avvicinano al suo capezzale coll'animo velato e commosso da un senso di infinita
pietà. Poiché la disgraziata è votata inesorabilmente alla morte. Giorno per giorno il suo
organismo si consuma in una lotta atroce contro un nemico implacabile che la corrode
lentamente, martellandola, pungendola, attanagliandola minuto per minuto con la raffinata
crudeltà, di un tiranno chiuso ad ogni senso di umiltà. Il nemico è l'acido muriatico, che la
sventurata ha ingoiato in una fatale notte dello scorso novembre. Vedremo in quali drammatiche
circostanze. Eppure questo fragile corpo di donna, tanto barbaramente martoriato, ha saputo
conservare per quattro mesi, fra le pieghe dell'anima che ancora lo vivifica, un segreto terribile,
per non recare danno o pregiudizio al suo carnefice, a colui che con atto di inaudita barbarie le
aveva dato la morte attraverso allo sofferenze indescrivibili di una lunghissima e straziante agonia!
E indubbiamente la misera creatura avrebbe portato il segreto nella tomba se per un caso
fortuito la polizia non fosse venuta a conoscenza di una parte della verità terribile. Misteri
dell'anima umana! 
Il suo ingresso all'Ospedale 
Fu nella notte del 6 novembre verso le ore 4 che la povera donna fece il suo primo ingresso al
San Giovanni. Era accompagnata dall'amante, certo Bonino Giuseppe d'anni 38, meccanico da
Ivrea e da certa Cario Angela maritata Migliotti, una vicina di casa. Introdotta nella sala delle
medicazioni, fu subito attorniata dai sanitari ai quali narrò, fra singhiozzi strazianti, che poco
prima aveva ingoiato un liquido venefico di cui ignorava il nome. Mentre i sanitari si prestavano
a prodigarle i soccorsi del caso, la guardia di servizio procedette alla prescritta identificazione.
Alle domande rivoltele rispose: Sono Novaresio Clelia di anni 27, sarta, ed abito in via Mazzini
n. 44. Chiestole poscia perchè aveva ingoiato il veleno, rispose semplicemente: Perchè ero stanca
di vivere. La risposta, conforme a quella che danno il novanta per cento delle parsone che si
votano volontariamente alla morte, fu creduta veritiera. Nessuno pensò in quel momento di
scrutare il contegno dell'amante presente. Compiuta la lavatura dello stomaco, la misera fu
ricoverata nel Nosocomio e vi rimase per una quindicina di giorni, durante i quali il suo stato
parve migliorare alquanto. Era però un miglioramento fittizio, apparente. Il terribile veleno le
aveva concesso una breve tregua, ma le era rimasto nelle viscere, pronto a riprendere con
maggiore implacabilità la triste opera sua. Più disfatta, più sofferente, dovette richiedere
ospitalità, al Nosocomio; e lì rientrò il 18 dicembre. Questa volta fu ricoverata nella sezione Carle.
Dai sintomi, che ora erano più chiari ed evidenti, i medici dubitarono assai che il veleno che
la martoriava fosse il sublimato corrosivo, come prima si era creduto; ma ancora una volta la
donna interrogata su tale riguardo, rispose di ignorare di quale natura fosse il liquido ingoiato.
Giorno per giorno intanto le sue condizioni si andavano aggravando in causa della crescente
debolezza dovuta all'impossibilità di ricevere qualsiasi nutrimento. I sanitari pensarono allora
di nutrirla artificialmente, e provvidero alla bisogna mediante l'immissione di una sonda
attraverso ad un'incisione nell'addome. E così ancora oggi è nutrita la disgraziata creatura!
Durante le molte settimane della degenza, alcuni conoscenti si recarono al suo letto a recarle
la parola del conforto; ma non comparse mai l'amante, il Bonino. Egli — come si seppe di poi —
aveva lasciato Torino e si trovava a Nicastro in qualità di «chauffeur» presso il comm. Mauro.
Alla polizia nel frattempo era pervenuto fortuitamente, come abbiamo detto, un barlume della
verità che la donna aveva saputo, con tanto spirito di generosità, tacere. Impressionato dalla
notizia pervenutagli, per quanto frammentaria, il cav. Massera commissario della sezione di via
Giannone, volle subito approfondire le indagini, e insieme al delegato Olivazzi si recò senz'indugio
al S. Giovanni per interrogare la Novaresio. 
La vittima narra di essere stata costretta ad avvelenarsi!  
Alle prime domande rivoltele, la povera donna fissò i due funzionari come stupita che una parte
del s6uo segreto fosse conosciuto — Come l'hanno saputo? — interrogò a sua volta. Eh!la polizia
ha svariate fonti che la mettono, non sempre ma sovente, a conoscenza di quanto la gente vuol
nasconderle — rispose il commissario. Invitata poscia a dire tutta la verità, la donna si raccolse
per qualche istante in un affannoso silenzio, poscia incominciò, il suo terribile racconto dall'inizio,
incominciando delle sue tribolazioni. Circa, nova anni fa, quando era ancora giovanissima ed
inesperta della vita, essa conobbe un uomo che l'amò e nelle cui braccia essa si gettò
completamente fiduciosa. Frutto di tale relazione fu una bambina che ha ora otto anni e
convive con la mamma, o almeno è vissuta fino al giorno in cui la mamma dovette essere
ricoverata all'Ospedale. Passarono gli anni e giunse purtroppo anche un giorno triste, e
fu quello in cui l’amante volle riprendere intera la sua libertà ed abbandonò ai loto destini
madre e figlia pur restando a Torino ove fa il cameriere. Questa parte della narrazione forma
il preludio soltanto dell'odissea di guai della poveretta. La fase più burrascosa della sua
martoriata vita è venuta in seguito. La Novaresio continuò il suo triste racconto: — L'anno
scorso la cattiva sorte mi fece incontrare nel Bonino Giuseppe. Egli era vedovo, io ero libera
e ci unimmo maritalmente, nella mia abitazione in via Mazzini N. 44. Restammo insieme quattro
mesi e non furono, purtroppo, mesi di pace per me. Il Bonino era gelosissimo e lo dimostrava
con scene di inaudita violenza che mi terrorizzavano. Quanti giorni e quante notte di spasimo
abbiamo passato io e la bambina. Poi venne la notte fatale (quella del 6 novembre), il cui ricordo
mi fa tuttora rabbrividire. E la misera rabbrividì infatti: poi continuò: — Il Bonino è venuto a
casa quella sera col viso spaventosamente oscurato dall'ira; ed iniziò una delle solite scenate,
ma con un impeto di ferocia che ancora non conoscevo. Mi difesi come meglio seppi, ma lo
sciagurato non voleva udire ragioni, e non trovando nelle contumelie sufficiente sfogo all'ira,
mi percosse spietatamente. Ma nemmeno ciò valse a soddisfarlo. Ad un tratto egli afferrò un
rasoio e mi si gettò addosso terribile. Col coraggio della disperazione mi difesi come meglio
seppi: e sia per le mie grida, o sia per un baleno di pentimento che egli ebbe, si lasciò finalmente
disarmare; e poscia si calmò alquanto. Io approfittai di quel momento per nascondere l'arma nel
materasso, temendo che l'ira lo riprendesse. E non mi ero su questo punto ingannata. Lo
sciagurato dopo brevi istanti di semi-pace, risorse più terribile e minaccioso, e ghermitami di
nuovo pel collo gridò furente: «Voglio, voglio ucciderti!» Ebbi in quel momento l’impressione
che la mia ultima ora era giunta. Invece lo sciagurato improvvisamente mi lasciò ed avvicinatosi
ad un armadio prese una piccola bottiglia e me la porse. Io, a tutta prima non compresi. — Bevi!
— mi gridò imperiosamente il furfante- altrimenti ti uccido. Ma cosa c’è li dentro- domandai
timidamente. Non fare domande: bevi! — ripetè lui. — In quel momento non seppi comprendere
la gravità dall'atto che mi si chiedeva e sotto il dominio della minaccia mi appressai alle labbra
la bottiglia e ingoiai 11 liquido che conteneva. 
Le terribili sofferenze 
Il Bonino assistè all'atto, impassibile. Parve finalmente soddisfatto del sacrificio supremo che mi
aveva imposto. Io rimasi alcuni istanti come istupidita. Ancora non comprendevo la terribile
realtà della mia posizione. Me ne accorsi però poco dopo quando il veleno incominciò la sua
terribile opera, strappandomi grida e singulti di spasimo. Il Bonino parve allora misurare le
conseguenze che in suo danno avrebbero potuto venire, e assumendo un tono supplichevole
mi scongiurò di nascondere la verità dicendo che mi ero avvelenata di mia volontà. Glie lo
promisi, e mantenni la parola! Nulla avrei mai detto se ella non fosse venuto qui. I dolori intanto
aumentavano — continuò — e allora ti Bonino svegliò la vicina di casa. Corto Angela, che
premurosamente accorse e mi preparò una tazza di camomilla, il che non valse, certo, a togliermi
le sofferenze. Fu allora deciso di accompagnarmi al vicino Ospedale di San Giovanni; il che fu
fatto. 
Lettere compromettenti  
Abbiamo detto più sopra che il Bonino si allontanò da Torino per assumere un impiego di
chauffeur a Nicastro in Calabria. La lontananza però non aveva dato la tranquillità all’animo suo.
Era tuttora in lui il timore che la donna rivelasse la verità terribile e questo stato dell'animo suo
svelò in una lettera che fu trovata dalla polizia. La verità poi del racconto fatto dalla donna fu
confermata dalla minuta di una lettera che essa aveva scritta al Bonino in risposta a quella di lui.
La denunzia e l'arresto 
Il commissario Massera, dopo avere raccolto la gravissima deposizione, fece una visita
nell’abitazione della Novaresio e nell’armadio trovò e sequestrò un’altra bottiglietta contenente
del liquido che fu poscia riconosciuto per acido muriatico, che il Bonino teneva presso di sè per
le saldatura. Proseguendo poscia per altre vie le indagini, il funzionario potè raccogliere
deposizioni varie che lo misero in grado di stendere una particolareggiata denunzia all'autorità,
giudiziaria. Presa conoscenza dei fatti, il Procuratore del Re spiccò subito mandato di cattura
contro il Bonino; mandato che fu immediatamente inviato all'Autorità di Nicastro per
l'esecuzione. In tal modo, dopo quattro mesi dal delitto, il Bonino è caduto nello mani
della giustizia. Egli verrà presto tradotto a Torino per essere messo a confronto, se già la, morte
non avrà compiuto il suo triste ufficio, con la sventurata vittima. La bimba della disgraziata è
stata provvisoriamente ritirata da una vecchia e pietosa donna.  
.. e poi continua....
Conseguenze del gravissimo delitto scoperto dopo quattro mesi 
Un cameriere che si suicida perché citato dal giudice istruttore 
La Stampa 22.3. 1912 
Ieri mattina l’Autorità venne avvisata che in una camera ammobiliata sita un caseggiato interno
dello stabile n. 37 di via San Francesco da Paola si era ucciso un uomo. Sul posto si recò
immediatamente il delegato Azzati con agenti. Salito nella camera, che è attigua ad altre pure
date in affitto ammobiliate. Il funzionario rilevò che il suicida si era sparato un colpo di rivoltella
alla tempia destra, stando seduto sul letto. Il colpo era riuscito mortalmente fulmineo. Nella camera
fu trovata una lettera chiusa, indirizzata all’ ufficio di istruzione presso il Tribunale. Il funzionario
ne prese possesso per consegnarla all’ufficio. Dalle informazioni attinte da alcuni dei presenti
egli potè stabilire che il suicida è certo Tos Gioacchino di anni 42 da Santhià cameriere al Molinari.
Potè inoltre accertare che il movente del suicidio risale al fatto da noi narrato nella cronaca del
16 corrente. In quella triste narrazione abbiamo esposte le tragiche vicissitudini toccate ad una
disgraziatissima donna, certa Novaresio Clelia, d'anni 27, che, sotto il dominio di gravi minacce
per parte del suo amante Bonino Giuseppe, aveva bevuto quattro mesi prima, e precisamente
nella notte del 6 novembre, una pozione di acido muriatico. Risalendo nel triste passato della
sventuratissima creatura, abbiamo pure narrato che in età giovanissima essa si era completamente
abbandonata nelle braccia di un cameriere, che l’aveva resa madre di una bambina, che ora ha
8 anni e che la madre aveva voluto tenere con sé invece di abbandonarla alla carità pubblica come
fanno, purtroppo, la maggior parte delle donne nubili. Orbene l’autorità giudiziaria la quale sta
costruendo l’inchiesta contro il Bonino che com’è noto fu arrestato a Nicastro volle naturalmente
precisare anche tutte le circostanza dei precedenti della tragedia: e in conseguenza il giudice
istruttore incaricato dell’inchiesta fece pervenire un invito a interrogatorio anche a Gioacchino
Tos che era appunto il cameriere ex-amante della Novaresio. Appena il Tos fu in possesso del
documento si dimostrò conturbatissimo, e questo suo stato d'animo confidò ad un collega col
quale era in maggiore intimità. Nè valse a tranquillizzarlo il pensiero che a lui, legalmente, non
venivano fatti addebiti riguardo al veneficio. Nelle sue successive confidenze al collega, questi
comprese che il turbamento andava aumentando nell’animo suo. Infatti l’altro ieri egli gli chiese
fra l’altro con quale mezzo avrebbe potuto darsi la morte senza soffrire. Impressionato da tali
discorsi ieri mattina il collega il quale affitta pure una camera nello stesso stabile entrò nella
camera del Tos per svegliarlo ma il disgraziato dormiva già di un sonno che non ha risveglio!
Fu allora dato l’allarme al vicinato e poscia all’Autorità. Dopo le incombenze di legge il cadavere
venne trasportato negli istituti universitari del Valentino
Non è dato di sapere quali furono gli sviluppi della tragica vicenda. Nella Stampa del 29
gennaio 1916, quindi di 4 anni dopo, un trafiletto reca l'annuncio del matrimonio di tal Arato Felice con Novaresio Clelia...
Ci auguriamo a distanza di quasi cent'anni che non si tratti di una mera omonimia