mercoledì 31 luglio 2013

San Gangolfo e il tradimento

Leggendo la quasi quotidiana cronaca di uccisioni di donne (descritte con l'orribile eufemismo di femminicidio) da parte di mariti/amanti/fidanzati abbandonati, mi è venuto alla mente l'antica vicenda  di San Gangolfo, riportata da molti studiosi che si sono occupati delle relazioni familiari nell'Alto Medioevo. L'estratto che segue è tratto da un articolo di Aneta Pieniądz pubblicato nel 2011 sulla rivista Reti Medievali:

"......Un esempio particolarmente interessante di queste contraddizioni è costituito dalla Vita di san Gangolfo († 760 ca.), composta alla fine del IX oppure agli inizi del X secolo sulla base di una tradizione anteriore. Se accantoniamo la questione degli antecedenti letterari dell’opera e della storicità degli eventi descritti, la Vita fornisce informazioni sui costumi tradizionali del matrimonio e sulle relazioni all’interno della coppia coniugale nella società altomedievale e permette di comprendere meglio i mutamenti che si associano al processo di diffusione dell’ideale cristiano del vincolo coniugale. La moglie di Gangolfo, una donna che incarnava tutti i vizi femminili, commise adulterio con un chierico. Quando le notizie sull’infedeltà della coniuge giunsero alle orecchie del santo, lo assalirono una profonda tristezza e cominciarono i dubbi su come comportarsi con l’adultera. Da un lato, l’adulterio commesso dalla moglie poteva macchiare il nome di Gangolfo e privarlo dell’onore, e sarebbe stato dunque giusto e ragionevole uccidere la peccatrice per lavare con il suo sangue questa vergogna, dall’altro l’uccisione della coniuge fedifraga avrebbe condannato l’anima del marito alla punizione eterna. Gangolfo si decise a sottoporre la moglie a un giudizio divino per rendere manifesta la sua colpa e, costringendola a confessare il peccato, rese lecita la sua sopravvivenza. Si separò dalla moglie, ma le lasciò per tutta la sua vita i beni donati «in dotem sponsalicio iure», confermando l’indissolubilità del vincolo coniugale. Nella vita di Gangolfo la fedeltà alla legge divina faceva aggio persino sull’obbligo inderogabile di difendere il proprio onore. La paura che lo spargimento di sangue della moglie adultera e del suo amante potesse attirargli l’ira di Dio indusse il santo a rinunciare alla vendetta. Lasciare il giudizio nelle mani di Dio e astenersi dall’uso della violenza nelle relazioni coniugali sono gli stessi motivi che abbiamo già trovato nell’ideale del marito cristiano di Incmaro e che l’agiografo mostra come virtù del santo laico. E proprio quell’atteggiamento inaudito e la rinuncia della vendetta cruenta aprì a Gangolfo la strada per acquisire la corona del martirio con sacrificio della propria vita. Morì infatti ferito dall’amante della moglie, che lo assalì convinto che prima o poi Gangolfo avrebbe voluto regolare i conti. Nella narrazione dell’agiografo, il momento cruciale che determinò il destino di Gangolfo coincise con la sua decisione di agire al di fuori di una logica dell’onore. Tra l’ideale del cristiano misericordioso e il codice d’onore del laico guerriero esisteva una contraddizione radicale e insanabile, che fece della decisione di Gangolfo una vera prova di santità. L’interesse per la Vita di Gangolfo nell’ambiente ecclesiastico, che si constata nel numero di copie manoscritte e dei rifacimenti di cui la più famosa è stata scritta nel X secolo da Roswitha di Gandersheim, conferma l’importanza di quel modello di santità laica nell’attività pastorale della Chiesa e si inscrive negli sforzi compiuti per diffondere un modello di relazioni coniugali che, rispettando la gerarchia di funzioni e di responsabilità degli sposi, si fondavano sul principio dell’uguaglianza dell’uomo e della donna in Cristo e della santità della vita umana: ciò limitava la sovranità del marito sulla moglie, soprattutto per quanto riguarda il diritto di disporre della sua vita."

Incmaro di Reims e i suoi contemporanei sull’uxoricidio: l’insegnamento della Chiesa e la pratica sociale 
Reti Medievali Rivista, 12, 1 (2011)

In un altro articolo a firma di Alessandre Barbero, ricaviamo altri particolari sul Santo:
"L’importanza della figura di Gangolfo consiste nel fatto che nella Vita di questo conte franco, morto senza aver mai abbandonato la condizione laicale, è delineato per la prima volta un esempio di santità attiva e bellicosa, pienamente compatibile con gli impegni sociali di un laico potente. Come Geraldo anche Gangolfo, la cui unica attestazione documentaria è in un diploma di Pipino del 762, era un grande proprietario terriero, la cui famiglia dominava da generazioni la sua regione d’origine, e molto probabilmente vi esercitava ereditariamente funzioni comitali. Ma a differenza di Geraldo, Gangolfo è rappresentato dal suo biografo nell’esercizio di uno stile di vita pienamente confacente al suo rango e alle sue responsabilità. Certo egli è santo per la fedeltà all’insegnamento evangelico, l’assiduità all’ufficio divino, la carità verso i poveri, l’equità del giudizio e la rettitudine dei costumi; ma ciò non gli impedisce di adottare tutti quei comportamenti che ci si attendeva da un magnate franco del suo tempo.
La caccia, tanto per cominciare, è uno dei suoi passatempi preferiti: e l’agiografo prende energicamente le distanze da una consolidata tradizione monastica di condanna dell’attività venatoria, sforzandosi di dimostrare, con l’appoggio di diverse autorità, che si tratta al contrario di un esercizio legittimo e lodevole. Gangolfo, inoltre, è vassallo di Pipino e in virtù del “militare officium” che detiene ha spesso occasione di mettere la sua spada al servizio del re, che lo considera giustamente “inter fortissimos exercitus sui”: agli occhi dell’agiografo tutto ciò, lungi dal costituire motivo d’imbarazzo, rientra palesemente fra i meriti del santo, e lo dimostra la soddisfazione con cui riferisce che la sua armatura è tuttora esposta nella chiesa a lui dedicata. Gangolfo, infine, è sposato: e sebbene proprio il matrimonio sia destinato a perderlo, poiché sarà ucciso dall’amante della moglie di cui aveva scoperto il tradimento, l’agiografo, lungi dall’approfittare della situazione per criticare l’istituto matrimoniale, ne traccia un’apologia sorprendente per bocca dello stesso Gangolfo. Il santo infatti, scoperto il tradimento della moglie, la rimprovera amaramente per aver infranto un vincolo che avrebbe dovuto unirli per tutta la vita: “Optaveram, inquit, si fidem debitam servasses et in lege Dei ambulasses, omnia tecum saeculi discrimina perferre; quaecumque adversa contigissent, quaecumque prospera, collato tecum robore sustinere, simul pacienter vivere, simul delectabiliter mori”. Nessun autore, credo, della letteratura agiografica latina si era prima di allora impegnato in una difesa così appassionata e toccante della condizione matrimoniale, esaltata non come mezzo per incanalare l’impulso sessuale e consentire agli uomini di crescere e moltiplicarsi, ma come la scelta consapevole di due persone che decidono di affrontare insieme, nel bene e nel male, le prove dell’esistenza.
Ecco dunque un santo laico e potente, celebrato senza imbarazzo per il suo valore guerriero, alla fine dell’età carolingia; ed ecco un agiografo capace di affrontare con notevole originalità nodi concettuali complessi come quelli del matrimonio, della guerra, della caccia, che avevano sempre costituito e sarebbero rimasti anche in seguito un problema irrisolto nelle relazioni fra ecclesiastici e laici. Il fatto che l’autore della Vita fosse con ogni probabilità un chierico, addetto o comunque vicino alla chiesa di S. Gangolfo a Varennes, contribuisce certamente a spiegare lo scarso peso che la tradizione ascetica, di matrice prevalentemente monastica, pare aver esercitato sulla sua opera. Ma più in generale, proprio in relazione con l’itinerario fin qui seguito, non è sorprendente che una tradizione di ossequio verso il potere pubblico, e di ammirazione verso l’attività politica e talora persino militare dei grandi di palazzo, viva da secoli nell’agiografia franca sia sfociata proprio alla fine dell’età carolingia nella celebrazione di un personaggio come Gangolfo: un santo, cioè, che per la prima volta conquista ampia popolarità ed è apertamente riconosciuto come tale senza aver ricoperto alcun ufficio ecclesiastico, e anzi godendo pienamente di tutte le prerogative che si addicono a un laico potente."

Tratto da: Santi laici e guerrieri. Le trasformazioni di un modello nell’agiografia altomedievale
in Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarità, Torino 1994, pp. 125-140